La rubrica Antologia prosegue la sua esplorazione letteraria attorno alla Svizzera e ad alcuni dei suoi autori, scopo di queste brevi letture è proporre un esempio di come la Svizzera è stata conosciuta e considerata e di come i suoi letterati si sono confrontati con il resto del mondo o hanno rappresentato il proprio paese.
In questa occasione leggeremo alcuni passaggi di “Voyage d’une Suissesse autour du monde” (edizione del 1904), il resoconto di viaggio di Caecilie von Rodt, viaggiatrice, scrittrice e fotografa svizzera. Von Rodt, figlia del proprietario di piantagioni di caffè Karl Eduard Rodt e di Franziska Caroline Cäcilia; dopo la morte della madre nel 1872, iniziò a viaggiare in compagnia del padre. Nel 1896 pubblicò i suoi primi resoconti di viaggio e nello stesso anno intraprese un viaggio in oriente di cinque mesi e andò in Egitto, Palestina, Siria (Damasco), Libano (Baalbek e Beirut), Smirne in Turchia e Grecia da lì, viaggiò a Costantinopoli, Sofia, Budapest e Vienna. Nel 1897 visitò Dalmazia, Montenegro, Erzegovina e Bosnia, Sicilia, Algeria e Tunisia e nel 1901 partì da sola, cosa piuttosto insolita per l’epoca, per il suo viaggio intorno al mondo in cui attraversò gli Stati Uniti e da lì, passando per le Hawaii, arrivò fino al Giappone. Poi proseguì per Cina, Giava, Siam e Birmania fino all’India e a Ceylon. Durante il suo viaggio di ritorno in Europa, fece tappa in Egitto.
Nel 1903, von Rodt pubblicò il suo racconto di viaggio, il libro “Voyage d’une Suissesse autour du monde” in cui raccolse le sue esperienze di viaggio accompagnate da numerose immagini e illustrazioni, molte delle quali realizzate da lei stessa. Cäcilie von Rodt viaggiò ancora dal 1904 al 1910, anno del suo soggiorno in Tunisia che fu l’ultimo dei suoi lunghi viaggi. I resoconti dei suoi ultimi viaggi furono pubblicati in numerosi articoli di approfondimento. La collezione fotografica di Caecilie von Rodt è oggi conservata, insieme a quella del fratello Eduard, nella Burgerbibliothek di Berna, assieme ad uno dei suoi diari di viaggio del 1901.
Viaggio di una svizzera intorno al mondo – La traversata
Dopo le fatiche e le preoccupazioni dei preparativi per la partenza, assaporai con delizia la dolcezza di un viaggio in mare, la tranquillità che la monotonia delle giornate a bordo e il paesaggio marittimo donano alla mente agitata. Mi divertivo a osservare questi compagni di viaggio, così diversi per razza, condizione sociale, carattere, riuniti per alcuni giorni dal caso su quell’enorme scafo sballottato dalle onde. La vita su un transatlantico non è banale. Non solo ci si sente più vicini gli uni agli altri, ma anche più solidali. La stessa tavola ci separa tutti dall’abisso dove un capriccio del mare può precipitarci.
Involontariamente ci si interessa alle preoccupazioni, alle ambizioni, alle speranze che spingono tutte queste persone fuori dalla nostra vecchia Europa e, durante le lunghe ore di ozio trascorse sul ponte, si sollevano, più di quanto si dovrebbe, forse, il velo dietro cui si nasconde la nostra vita intima. I passeggeri sono quasi tutti americani e tedeschi; molti appartengono alla categoria dei tedeschi americanizzati, un genere molto simpatico che unisce la bonarietà e la cultura germaniche all’energia ed alla cortesia cavalleresca degli americani. Al nostro lato del tavolo, che era giustamente considerato il più allegro, ci divertivamo molto. Il vino dello Champagne scorreva ogni sera e più di una volta abbiamo brindato alla salute della viaggiatrice. Mangiare e bere sono le occupazioni principali sulle navi tedesche. Poiché la traversata era magnifica e il mare era sempre calmo e sorridente, i passeggeri avevano un ottimo appetito. All’ora dei pasti, la sala da pranzo presentava l’aspetto allegro e animato di un ristorante di una grande città; ci si dimenticava completamente di essere in mezzo all’oceano.
Al mattino, si rende onore al menu della prima colazione, carne, insalata, frutta, formaggio, uova e piatti dolci. Alle undici, seconda colazione, brodo e panini: tutti mangiano con gusto, mentre la musica di bordo suona i suoi brani più belli. Nel pomeriggio, biscotti decorati con gusto vengono serviti con il tè. La sera, cena secondo tutte le regole. Ma il Grosse Kurfürst non offre piaceri solo agli amanti della buona tavola: anche i misantropi e gli stoici, che disdegnano i piaceri della tavola, trovano qui ciò che fa al caso loro. L’arredamento della grande nave è grazioso, curato, persino lussuoso. Nel salone, rivestito di blu e bianco, si trovano numerosi tavoli da scrittura di un bianco immacolato. Bianco anche il bellissimo pianoforte a coda Bechstein. Graziosi dipinti raffiguranti piccoli amorini si alternano sulle pareti con tendaggi di seta dai colori brillanti. Un ritratto del Gran Elettore, al posto d’onore, e quadri raffiguranti le città tedesche dell’epoca di questo principe, ornano le pareti della sala da pranzo. L’artista che ha decorato la sala fumatori in stile moresco, si è divertito, per rompere la monotonia degli stemmi dipinti sul bordo, a ricoprire le pareti con scene umoristiche tratte dalla vita dei bevitori.
Il Kurfürst può ospitare a bordo 350 passeggeri di prima classe, 250 di seconda e 2400 nel ponte intermedio. La sua velocità media è di 23 chilometri all’ora; non appartiene quindi alla categoria dei grandi viaggiatori.
L’ultima notte è stata agitata. Il nostro Kurfürst sbuffava, gemeva, fischiava, come se fosse allo stremo delle forze. Il suo compito stava per terminare. Alle due, il pilota arriva a bordo; alle cinque, un medico fa la sua comparsa e, quando un attimo dopo salgo sul ponte, tutti i passeggeri si agitano in modo confuso. Con quale sorpresa contemplo, al posto dell’infinita distesa d’acqua, verdi colline punteggiate di ville.
La nave ha appena superato la punta di Sandy Hook; ci troviamo tra le due isole Staten e Long Island, nel passaggio degli Stretti, che conduce alla baia di New York, e non tardiamo a vedere apparire la gigantesca città nella nebbia mattutina. Su entrambi i lati della baia, le sue figlie – Brooklyn e Jersey City – sono quasi colossali quanto lei. Sullo sfondo, il viadotto di Brooklyn, il più grande e il più bello dei ponti sospesi, si sviluppa su una lunghezza di circa due chilometri con il suo enorme impalcato sostenuto da quattro robusti cavi di acciaio zincato. Potenti pilastri, alti 80 metri, sostengono il ponte sospeso a 41 metri sopra il fiume, in modo che le navi con un’alta alberatura possano passarvi sotto. Largo 25 metri, il viadotto ha due linee per i tram che trasportano da 8 a 10.000 passeggeri all’ora, due carreggiate per le automobili e una piattaforma sopraelevata che domina le altre corsie per i pedoni. Questa opera gigantesca, meraviglia di audace costruzione, fu iniziata nel 1870 e aperta al traffico nel 1883.
Nonostante le sue dimensioni colossali, il ponte di Brooklyn non è più sufficiente e si progetta di costruirne tre nuovi. Uno di essi è già in uno stato così avanzato che se ne può prevedere l’inaugurazione per la fine dell’anno (1903). La nebbia mi permette solo di intravedere la statua della “Libertà che illumina il mondo”, simbolo monumentale dell’emancipazione del Nord America. Questo colosso di bronzo, opera dello scultore francese Bartholdi, si erge su uno degli isolotti della rada, l’isola di Bedloe; fu donato nel 1876 dal governo francese agli Stati Uniti in occasione del centenario dell’Indipendenza. Il Genio tiene nelle sue mani una torcia da cui partono, così come dal suo diadema stellato, fasci di luce elettrica.
Altre due isole emergono ancora in questa parte del porto: Governor’s Island, un tempo residenza del governatore della colonia olandese, oggi fortificata, ed Ellis Island, dove gli emigranti sbarcano e trovano rifugio in un immenso edificio.
Il porto di New York è meraviglioso. La fortunata posizione della metropoli, costruita su un’isola tra un braccio di mare, l’East River, e la foce dell’Hudson, non solo le assicura facili comunicazioni e vantaggi commerciali incomparabili, ma la fa anche apparire di una grandezza prodigiosa e aggiunge molto alla sua bellezza. Come un oceano di edifici, la città gigante si estende all’ infinito in una massa compatta. Navi di ogni forma e stazza, dalle golette, alle piccole barche a vela, alle flottiglie di pescatori e ai tre alberi, fino ai grandi transatlantici, solcano i canali o stazionano nella rada. Ma come godersi questo spettacolo meraviglioso quando mille preoccupazioni assillano la mente dei nuovi arrivati? La maggior parte si chiede innanzitutto se qualche parente o qualche amico li aspetta sul molo. Poi ci sono le mance, questione scottante e di grande importanza sulle navi della Norddeutscher Lloyd; infine la dogana americana assorbe tutti. Come sfuggire più facilmente all’orda dei suoi impiegati? Scommetto che i berretti con galloni dei doganieri di New York e di San Francisco fanno battere forte il cuore degli americani e soprattutto delle americane che rientrano nel loro Paese. I dazi doganali sugli articoli di lusso sono incredibilmente elevati: la seta, ad esempio, paga il sessanta per cento del suo valore. Guai al viaggiatore colto in flagrante contrabbando!
La questione dei genitori e degli amici al molo non mi preoccupa, perché nessuno mi sta aspettando. Questo pensiero, l’ignoto che si apre davanti a me, mi rattrista, mi dà un brivido di freddo e di paura. Il mio vicino di tavolo, un vecchio scapolo pratico come tutti gli americani, non prova nessuna di queste emozioni. È appena tornato da un viaggio in Oriente, da cui avrebbe dovuto riportare numerosi souvenir a una banda di nipoti. «Comprerò tutto questo a un prezzo molto più conveniente a New York, mi dice, e così sfuggirò alle seccature della dogana. Posto che nessuno dei miei abbia la malaugurata idea di trovarsi allo sbarco! »
Il nostro Kurfürst approda finalmente a Hoboken, uno dei sobborghi, punto di attracco delle navi tedesche. Le tracce del grande incendio che ha appena distrutto in parte i moli della Norddeutscher Lloyd sono ancora visibili. Scortata da uno dei miei compagni di viaggio americani che desidera essermi utile, metto per la prima volta piede sulla terra del Nuovo Mondo. Ci fanno entrare in una baracca di assi dall’aspetto poco confortevole. Essa contiene due ampie stanze separate da una grata. In una si raduna il pubblico, nell’altra, divisa in numerosi scomparti contrassegnati ciascuno da una lettera dell’alfabeto, si ammucchiano i bagagli. Questa combinazione è molto utile, a condizione che ogni viaggiatore abbia avuto la precauzione di scrivere il proprio nome sui propri colli.
Stavo proprio parlando con un doganiere, quando lo zio dei numerosi nipoti mi sussurrò all’orecchio: «Grazie a Dio non c’è nessuno!». Poi scomparve e con lui l’ultimo volto familiare. La città mostruosa aveva inghiottito la nostra piccola società. Rivedrò mai qualcuno di quelli che la componevano?
trad. MdP
foto: pixabay
