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Volentieri diffondiamo la nota di Presentazione del volume “Irene di Targiani Giunti, La Croce Rossa Italiana nei diari e nella vita” di Gian Carlo Avanzi (Torino, 17 maggio 2013) apparsa nell’edizione di Caffè Dunant nr. 579 del 18 aprile 2020.

Nei primi decenni del Novecento, la figura dell’Infermiere si presentava come un’occupazione costituita da compiti in parte di natura domestica, in parte tecnica ed esecutiva, in parte di “accudimento materno” il cui svolgimento era affidato, per predisposizione naturale e per spirito di carità, a personale femminile e subalterno, o a personale religioso. Tutti concordano nel ritenere che fu soprattutto grazie alla Croce Rossa, che venne dato il primo impulso alla nascita di una figura professionale di infermiera. Era infatti il 1908 quando, su iniziativa della Regina Margherita di Savoia, nacque a Roma il Corpo delle Infermiere Volontarie, componente femminile della Croce Rossa Italiana che proseguiva, in forma più organizzata, le attività socio‐sanitarie delle Dame della Croce Rossa. Deve essere sottolineato che fu la Grande Guerra ad indurre la mobilitazione di donne e ragazze volontarie della Croce Rossa (e di altre associazioni di soccorso) che operavano negli ospedali delle retrovie, e non solo, impegnandosi nel prestare soccorso e sollievo ai soldati feriti e reduci dai terribili periodi passati in trincea. Secondo alcuni calcoli, nel 1917 le volontarie della Croce Rossa furono circa 10mila, a cui si sommavano altrettante facenti parte di altre associazioni.

Furono specialmente donne di estrazione borghese ed aristocratica, ad impegnarsi in questo tipo di assistenza, donne dotate di disponibilità economiche e di scolarizzazione.

Ma come si spiega questo impulso all’arruolamento generato dalla guerra?

Si spiega, a mio avviso, per diverse ragioni, una di queste era la consapevolezza della necessità della cura dei feriti (mariti, padri, fratelli, figli se vogliamo), della loro salvezza ma anche del loro recupero, come militari, per mantenere saldo l’esercito, ed eventualmente l’impiego, ancora, in battaglia; un’ulteriore ragione, più profonda ed inconscia, è quella dell’espiazione, un’espiazione traslata, del male, la guerra, generata e perpetrata dagli stessi padri, mariti o figli. La regina Elena conferì il titolo di Ispettrice nazionale del Corpo delle infermiere volontarie, nell’aprile del 1915, alla Duchessa Elena d’Aosta, moglie di Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, che era comandante della III Armata.

Qualcuno scrisse che “La storia degli uomini non va di pari passo con la storia delle donne”. Con la loro presenza, abnegazione ed istinto materno, le crocerossine riuscirono ad umanizzare il volto crudele della guerra condotta e perpetrata dai loro mariti. Ma quella delle crocerossine fu anche una storia contraddistinta da contraddizioni e ambiguità. Per esempio, le crocerossine coniugate, per andare al fronte e magari sacrificare la loro vita, dovevano chiedere l’autorizzazione al marito (di conseguenza le infermiere che non avevano vincoli familiari erano preferite). Oppure, dato che le infermiere appartenevano alle classi sociali più elevate, a loro si faceva divieto di occuparsi degli ufficiali del loro stesso ceto e quindi alle volontarie venivano affidati i soldati semplici di estrazione popolare. Le crocerossine erano presenti nelle retrovie, in ambienti caratterizzati da una forte presenza maschile ed il loro scopo era di curare il corpo di un uomo attraverso il contatto fisico. Le infermiere divennero quindi anche un simbolo di femminilità erotica. Un’immagine sfruttata anche dalla propaganda: si trovano infatti numerosissime cartoline in cui “le crocerossine, graziosamente racchiuse nelle loro divise non prive di civetteria, occhieggiano in direzione di gagliardi soldati, li abbracciano, assumono atteggiamenti seduttivi”.

Molti sostengono che l’esperienza delle crocerossine nella Grande Guerra sia stata anche una via all’emancipazione: una grande occasione per creare le basi di una professione femminile. Così quella che era partita come una spinta emotiva, legata anche ad un bisogno sociale, si era trasformata in un esperienza collettiva carica di significati e di consapevolezza del proprio ruolo, ormai non più subalterno. Si formò un vero e proprio movimento di opinione che riuscì ad ottenere l’istituzione di scuole professionali da cui uscirono le prime infermiere specializzate.

Nel nostro Paese le prime esperienze di formazione infermieristica risalgono ai primi anni del Novecento, nella forma di corsi interni agli ospedali, di profilo piuttosto basso, ma anche attraverso iniziative più illuminate, come la Scuola convitto Regina Elena di Roma (1910), la Scuola convitto Principessa Jolanda di Milano (1912) e molte altre. Sotto la pressione di diverse Associazioni femminili, di alcuni enti di beneficenza, della stampa e dell’opinione pubblica che denunciavano le deplorevoli condizioni dell’assistenza, in Italia le Scuole per Infermiere professionali furono formalmente istituite nel 1925, con il Rd 15 agosto 1925, n. 1832, che si pone come unica direttiva valida su tutto il territorio nazionale. Esso è il primo riconoscimento ufficiale della professione infermieristica da parte dello Stato. Stabilisce che la formazione teorico‐pratica dell’infermiere professionale, di durata biennale e con programmi ministeriali, si concluda, previo superamento di un esame di Stato, con il conseguimento del diploma di Infermiera professionale che costituisce titolo
obbligatorio (solo per i primi anni titolo preferenziale) per l’esercizio della professione.

Inevitabilmente, il Regio decreto del 1925 risente dei valori politico–‐sociali del fascismo assegnando alle infermiere il ruolo di donne sottomesse al medico (all’epoca professione quasi totalmente maschile).

Sono inoltre significativi i tratti della personalità che doveva avere l’infermiera professionale: vocazione, entusiasmo, bontà spirito di sacrificio, coraggio, disciplina, pazienza, ubbidienza, silenzio, discrezione, dignità professionale, tatto, garbatezza, buon umore. Questo preambolo è indispensabile per comprendere l’opera di Irene di Targianti Giunti. L’opera infatti racchiude alcuni degli elementi che ho descritto prima. Irene è un’aristocratica che decide, ad un certo punto della vita, di dedicarsi completamente alla missione di crocerossina e lo fa portandosi dietro la cultura che ha acquisito negli studi, e che traspare costantemente negli scritti, cultura che mette a disposizione del tentativo di riconoscimento di quella che lei stessa vorrebbe diventasse una vera professione e che assume i connotati di uno strumento di affermazione della figura femminile e quindi di emancipazione. Anche se i suoi scritti, le sue lettere, i suoi diari sono impregnati di patriottismo, di romanticismo, e, spesso di retorica, emergono alcuni tratti che, a mio avviso, possono essere presi in considerazione come elementi “ante litteram” di quel fermento culturale che ha determinato, nei decenni, la trasformazione dell’infermiera (o crocerossina) in infermiere professionale.

A questo proposito, vorrei citare un passo del copioso libro che raccoglie molti degli scritti di Irene, libro che, confesso, non ho potuto leggere completamente, passo che attiene a questo germoglio di nascita della professione. Si tratta della parte che riguarda il commento al regio decreto 15 agosto 1925 che si intitola: diploma di stato per l’esercizio della professione d’infermiera. Come già detto, questa non era considerata fino ad allora una professione ma semplicemente una scelta di vita.

Ma sentiamo cosa pensa della legge e della figura dell’infermiere Irene: Innanzitutto sottolinea come si tratti di una conquista femminile poiché lo Stato riconosceva con una legge l’opera femminile. Al di là di questo, Irene delinea il concetto della necessità di una scuola per la formazione scientifica e pratica, e si sofferma anche sulla tematica del rapporto dell’Infermiera nei confronti del Medico che paragona a quello del pubblicista con il tipografo, ruoli complementari quanto imprescindibilmente uniti. E qui certamente si può commentare quanto d’avanguardia sia stata la sua posizione di critica più o meno velata, del decreto, che sottopone la figura di infermiera a quella del medico. Irene, tuttavia, coglie nella legge quanto di buono essa offre, finalmente la consacrazione di un ruolo sociale, di una professione, ad appannaggio della donna. Non nasconde la sua soddisfazione anche se, in parte, critica il decreto, ritenendo lo stesso solo un primo passo; avrebbe infatti voluto di più, avrebbe infatti voluto che il corso di studi fosse più simile a quelli che aveva visto nei paesi anglosassoni, corsi più professionalizzanti e più scientifici, con minore esposizione a tirocini di mero lavoro manuale.

Non sfugge al lettore la critica, relativa alla nuova scuola, sulla possibile deriva verso un lavoro di mera assistenza ai bisogni primari, che secondo Irene, doveva essere affidata a figure con livello di istruzione inferiore a quello delle infermiere, prevedendo, con questo, figure che solo recentemente sono state istituite in Italia, ovvero le operatrici socio‐sanitarie (OSS). Nella sua lettera di commento alla legge scrive…. Ed è un’infermiera completa che vorremmo venisse fuori dall’era nuova d’Italia… cioè una figura di “Registered Nurse”, cioè infermiera autorizzata all’esercizio di una professione come quella di Medico o di Avvocato, secondo Irene, il decreto non contiene gli elementi di autonomia intellettuale e professionale che ella desiderava, seppure esso rappresenti, tuttavia, un primo importante passo.

Continuando nella lettura ci accorgiamo che vengono toccati temi importanti come la necessità di un esame finale severo, della identificazione, attraverso l’appellativo infermiera, di una precisa figura professionale, diversa da altre, dovendo evitare di mettere nello stesso calderone, cito testualmente, suore della carità, infermiera professionale, portantino, pappina, porta‐feriti, etc. Un altro interessante spunto è dato dall’enfasi che Irene mette nel giudicare la scelta di istituire, da parte del legislatore, un corso preliminare di “selezione morale” delle allieve infermiere. Certo siamo molto lontani dal moderno test d’ingresso o test psico‐attitudinale, ma non così tanto.

Dagli scritti che ho potuto leggere di Irene, traspare una figura di intellettuale consapevole dell’opportunità che tale legge di istituzione della professione conferiva all’emancipazione sociale della donna in quel periodo. Oggi la professione infermieristica è molto lontana da quei modelli, anche se, devo dire, l’evoluzione è stata molto lenta, in Italia. Ora, come si sa, l’infermiere è un laureato triennale che può proseguire gli studi con un altro biennio (laurea Magistrale in Scienze Infermieristiche ed Ostetriche) oppure con master di perfezionamento, specialistico, cito ad esempio l’infermiere forense, l’infermiere d’area critica, l’infermiere psichiatrico e via discorrendo. Quelli triennali sono certamente cosi di laurea professionalizzanti ma con grande valenza scientifico-tecnica. Oggi l’infermiere è figura professionale, priva di mansionario, che si occupa, in piena autonomia, dei bisogni del paziente, pianificando l’assistenza infermieristica sulla base di modelli assistenziali che traggono le loro fondamenta dalle opere delle grandi teoriche dell’infermieristica come la Henderson, Nightingale, Cantarelli. Molta strada è stata fatta da allora, quando Irene Di Targianti Giunti scriveva queste lettere, possiamo tuttavia concludere, che Irene è stata un’avanguardia della moderna professione infermieristica.

Gian Carlo Avanzi
Professore Ordinario di Medicina Interna
Presidente Corso di Laurea Magistrale in Scienze Infermieristiche ed Ostetriche Università del Piemonte Orientale

Bibliografia:
Antonio Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani, BUR, Milano.
Stefania Bartoloni, Italiane alla guerra. L’assistenza ai feriti 1915‐1918, Venezia, Marsilio.
L’assistenzialismo femminile durante la Grande Guerra, http://www.itinerarigrandeguerra.it