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La rubrica Antologia prosegue la sua esplorazione letteraria attorno alla Svizzera e ad alcuni dei suoi autori, scopo di queste brevi letture è proporre un esempio di come la Svizzera è stata conosciuta e considerata e di come i suoi letterati si sono confrontati con il resto del mondo o hanno rappresentato il proprio paese.

Proseguiamo quindi alla scoperta delle pagine di un libro del medico e botanico Antonio Caccia, L’Impero Celeste, edito a Milano nel 1858. Caccia (Morcote, TI, 22 gennaio 1806 – Como, Italia, 27 agosto 1875) compì i suoi primi studi in Italia, a Como e Roma, poi si trasferì in Baviera, a Würzburg, dove si laureò, in medicina, successivamente si laureò in botanica e medicina legale all’università di Cambridge. Ultimati gli studi, compì una serie di viaggi: in Grecia, in Russia (1835) dove si fermò per tre anni a Mosca esercitando come medico, a Costantinopoli, in Crimea, in Siberia e in alcune province dell’Impero cinese, in America.

Frutto di questi viaggi furono una serie di libri tra i quali ha catturato la nostra attenzione, L’Impero Celeste che, scritto sotto forma di epistolario tra un cinese ed un europeo, illustra costumi e storia della Cina, paese che ancora oggi affascina e incuriosisce per la sua complessità.

L’Impero Celeste

Pechino – seconda parte 

Il Klen-Tsin-Kung, vale a dire il placido e quieto soggiorno del Cielo, ben inteso del mortale imperatore della Cina, è il palazzo in cui l’imperatore Kanghi si rese immortale dando una gran festa ai sudditi più vecchi dell’impero. Niuno può avvicinarsi senza uno speciale permesso ed in questo, ch’è il più ricco e splendido di tutti, l’autocrata cinese raccoglie a consiglio i suoi ministri ed ama conoscere le persone che vi vengono postulando impieghi e funzioni pubbliche.

Il Kuan-ning-kung, ossia il palazzo del riposo della terra, cioè dell’imperatrice. Questa denominazione è tutta di genio tartaro: la dinastia regnante, non contenta di assimilare l’imperatore al cielo, volle anche assimilare l’imperatrice alla terra.

Yu-Hun-Hien o giardino imperiale, è un luogo magnifico di delizie dove suole passeggiare l’imperatrice la quale, come vera Tartara non ha rovinato i piedi per ridurli alla piccolezza cinese. Questo giardino è pieno di ricchi padiglioni, di templi, di grotte, di laghi, di getti d’acque, di canali e di bellissimi fiori.
I sei palazzi dove abitano le mille e più concubine dell’imperatore si trovano nella parte più solitaria di Nord-est; guai a chi, non essendo eunuco, osasse movere per colà non solo i piedi ma gli occhi, ancora!

Il popolo cinese ha per la città proibita la più grande venerazione. Esso la considera come il luogo più santo, più temuto e più splendido dell’universo. Ma io sono certo che un Europeo avvezzo alle magnificenze architettoniche ed al vero splendore degli edifizi e de’ monumenti, non troverebbe nella città del Figlio del Cielo altro che bizzarre e pittoresche abitazioni e, da ultimo, un perfetto disinganno.

Nella parte di Pechino che s’accosta alla città proibita trovansi vari monumenti, de’ quali i più considerevoli sono: il Tai-Miou, ossia il gran tempio dedicato agli avi dell’imperatore regnante. Il Chay-Tseih-Tan, cioè l’altare delle deità dei campi e de’ cereali-grani. Il palazzo d’estate dell’imperatore detto Ying-Tai, circondato da bei giardini, ed il tempio della suprema Felicità, chiamato dai cinesi Scem-fuh-Tsz. In questa parte trovasi anche il Collegio russo dove vengono educati gl’interpreti del governo moscovita. Vi si vede un gran parco, detto occidentale, dove ammirasi un lago artificiale lungo quasi due chilometri e finalmente un ponte di marmo che mette all’isola dei marmi.

Nel terzo recinto della città settentrionale si trovano in diversi ministeri del governo imperiale, la specula e l’uffizio degli astronomi, il collegio medico, il convento russo dove abitano i dieci inviati della Russia e la grande Academia nazionale, dalla quale dipendono tutti gli stabilimenti d’istruzione publica dell’impero. Questa Academia nomina tutti coloro che sono incaricati di esaminare i candidati concorrenti agli impieghi civili. Qua e là sorgono diversi templi, fra’ quali merita particolar venerazione quello della Pace eterna e quello di Confucio: qui la chiesa russa dell’Assunta e, non molto lontano, la famosa torre di Tam-Tam e quella della strepitosa campana: quivi finalmente tu miri, da un lato una bella moschea maomettana, dall’altro il Tien-sciao-lang, tempio del Signore del Cielo, antica chiesa cattolica che eressero, in illo tempore felici, i Gesuiti portoghesi ma ora è deserta.

La parte più caratteristica e più curiosa, massime per un Europeo, è quella abitata dal ceto mercantile, che è, come già vi dissi, la città interna. Questa è il centro di tutti i piaceri e di tutti i passatempi, di tutte le stravaganze de’ folli e originali Cinesi. All’incontro nella città mandarina non regna che a gravità, compagnata dall’ostentazione, dall’ipocrisia, dall’impostura e dalla perfidia. Quale differenza di vita sociale tra coloro che specolano per dominare e quelli che s’industriano per arricchire! Percorrendo le vie e le piazze della città mercantile, tu vi vedi in ogni ora del giorno e della sera un’immensa folla di gente d’ogni condizione, d’ogni vezzo e d’ogni sentire. Quivi s’industriano per arricchire!

Percorrendo le vie e le piazze della città mercantile, tu vi vedi in ogni ora del giorno e della sera un’immensa folla di gente di ogni condizione, di ogni vezzo e d’ogni sentire. Quivi tra le innumerevoli le botteghe d’ogni maniera di trafficatori muovonsi qua e là le ambulanti de’ calderai, de’ calzolaj, de’ barbieri, de’ fabbri-ferraj. Là, ne’ siti più larghi, spiccano le variopinte tende e loggie de’ venditori di tè, di riso, di frutte e di legumi. Quivi si ammira la copia e la magnificenza delle più belle produzioni dell’industria serica. Là vanno e vengono al lenti passi e gravi e numerosi Mandarini, coll’usuale loro codazzo di servi armati d’ombrelle, di bandiere, di lanterne e di ventagli. Gli uni s’inchinano, gli altri procedono innanzi con tale sussiego che sembra baldanza. Ma che? Lo spettacolo appena comincia.

Fra la moltitudine delle genti, che si agitano come onde del mare tempestoso, ecco venir tra il pianto e la mestizia una lunga processione d’uomini che accompagnano al luogo dell’eterno riposo i parenti e gli amici e, non lungi, seguirne un’altra tutta festosa e giubilante di novella sposa che rinchiusa in un palanchino muove a suon di musica orribile al talamo sospirato. E non basta andar guardinghi tra la turba incalzante de’ pedestri; non basta far buon orecchio ai gemiti, agli urli di coloro che li urtano a dritta e a sinistra, ma bisogna star ben cogli occhi spalancati e colle mani pronte se non vuoi che un mariuolo coll’abituale sua destrezza non ti cavi daddosso perfin l’ultimo quattrino.

La scena non è ancora finita in questa popolosa arena mercantile: lunga fila di dromedari, carichi di carbon fossile e provenienti di Tartaria, fansi largo a traverso le stipate vie e tiran dritto pestando chi vi si oppone e a null’altra voce se non a quella de’ loro barbari conduttori. E mentre da un lato la scena è triste, dall’altro si fa tutta piacevole e ridicola per i saltimbanchi dì ogni genere, per li cantastorie, per i dicitori di buona fortuna, per i cavadenti, per i cerretani, insomma per ogni sorta di empirici che ti promettono tutto ciò che puoi desiderare. Intento i musicanti ti squarciano le orecchie, gli strioni ti ammutoliscono e gli arlecchini e i pagliacci cinesi fan piangere a forza di ridere.
Non è possibile farsi un’idea dello spettacoloso movimento della popolosa e mercantile città di Pechino!


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