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Mi è stato chiesto di scrivere la storia della Scuola Svizzera di Roma. Può apparir strano, ma tutta la scuola, così come si presenta oggi, è sorta da una serie di circostanze fortuite ed imprevedibili.


Nel corso di questa storia parlerò spesso in prima persona, essendo stato il promotore ed in gran parte l’esecutore delle decisioni che hanno portato alla creazione ed allo sviluppo della nostra Scuola. Dopo la prima decina di anni .di lavoro organizzativo mi sono man mano ritirato, avendo ormai la Scuola una sua organizzazione funzionante, un Comitato direttivo, un Direttore, una Segreteria a pieno tempo, che dopo l’esperienza acquisita erano ormai in grado di assumersi la propria parte di responsabilità decisionali. Chiedo scusa una volta per tutte dell’ego-centrismo del racconto ricordando ai lettori i tanti amici, genitori e parenti di scolari, membri del Comitato e del corpo insegnante che con il loro impegno e con il loro lavoro hanno garantito lo sviluppo della Scuola, ,il suo crescente perfezionarsi e la sua notorietà nell’ambiente scolastico romano, italiano ed estero. La Colonia svizzera di Roma non ebbe mai un interesse particolare ad una scuola propria prima della seconda guerra mondiale. La maggioranza dei giovani svizzeri frequentava le scuole statali italiane, una minoranza di lingua francese lo Chateubriand, un’altra minoranza la scuola tedesca, originariamente sorta per i figli dei funzionari luterani dell’ambasciata di Prussia che aveva sede a suo tempo nel palazzo Caffarelli sul Campidoglio. All’inizio della seconda guerra mondiale la scuola si trasferì a via Savoia.
Nella nostra famiglia abbiamo tutti frequentato scuole italiane; tuttavia, poiché l’inizio scolastico nel caso mio avvenne dopo lo scoppio della prima guerra’ mondiale, data che in Italia, ancor prima della sua entrata in guerra, nelle scuole pubbliche-statali v’era un forte sentimento antitedesco (per il popolino alle volte anche i neutri, olandesi, danesi, norvegesi, svedesi e svizzeri venivano spesso in modo piuttosto generalizzato chiamati «tedescacci»), i miei, consigliati da amici, mi iscrissero all’Istituto Massimo a piazza dei Cinquecento. Fu così che io da protestante seguii quattro classi elementari nell’Istituto dei Gesuiti, il che dimostra che già allora v’era ad un livello superiore uno spirito ecumenico che si elevava al disopra dei fatti contingenti mantenendo un ambiente scolastico che favoriva la collegialità, lo studio e la stima reciproca.
Dal Massimo passai al Torquato Tasso, in via Sicilia, a quell’epoca il più quotato ginnasio-liceo di Stato a Roma. Il mio amico Gian Giacomo Gautschi, più tardi per anni Presidente del Circolo Svizzero di Roma, entrava da via Campania nell’Istituto tecnico Michelangelo Buonarroti che si trovava nello stesso edificio.
Fino agli anni trenta – almeno a Roma – ed in alcune scuole anche dopo, il fascismo non era sentito nella vita scolastica, poiché gli insegnanti erano in gran parte rimasti liberali o socialisti e spesso più o meno apertamente antifascisti. E’ opinione mia che fondamentalmente gli alunni fino al 1928 – quando furono ufficialmente ,invitati ad iscriversi alle organizzazioni giovanili fasciste – non fossero politicamente indottrinati, mentre erano indubbiamente pervasi da un forte nazionalismo.
I primi tentativi di creare una Scuola Svizzera a Roma ebbero inizio verso il 1935 per evitare ai giovani che frequentavano la scuola tedesca di essere esposti alla propaganda nazionalsocialista.
Le iniziative in tal senso non ebbero né potevano avere successo.
Mancava una spinta sufficiente; gli svizzeri di lingua tedesca si rifiutavano di credere che l’infatuazione nazionalsocialista potesse durare a lungo.
Durante l’estate 1943, dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, fu chiaro a ratti che il fronte sarebbe per la prima volta nella storia, dopo Annibale, risalito dal sud dell’Italia verso il nord e non viceversa e che ad un dato momento Roma avrebbe finito per trovarsi in prima linea.
Mentre perduravano e si prolungavano le vicende belliche, la Colonia svizzera sempre più spesso si incontrava al Circolo svizzero e cercava di prendere decisioni concordate. Tutti erano convinti che Roma, città aperta, non sarebbe mai stata bombardata. Fummo però anche tutti del parere che l’approvvigionamento della città con viveri, acqua e combustibili sarebbe stato molto aleatorio e quindi era meglio non esporre i nostri figli ad un’esperienza che, in modo particolar per i più piccoli (mancanza di latte), poteva avere effetti negativi sulla loro salute; vi fu quindi un esodo di bambini verso la Svizzera.
Sapevamo tutti che questo periodo sarebbe durato abbastanza a lungo e quindi cercammo soluzioni che evitassero di inviare i nostri figli presso parenti più o meno diretti che non avessero figli propri della stessa età. I figli miei e quelli degli amici Straub e Keppler furono mandati a Teufen, un piccolo paese lungo la ferrovia a scartamento ridotto San Gallo – Gais – Appenzell a cinque chilometri da San Gallo. Il Kinderheim Wachter che aveva il compito di sorvegliare i bambini fu un punto di riferimento per molti figli di svizzeri all’estero, in modo particolare d’Italia; e dalla vicinanza di San Gallo ebbe origine Il nostro rapporto con questa città.
Era un Kinderheim senza scuola. I bambini in età scolastica frequentavano la scuola elementare del paese e dal mese di maggio a settembre, beati loro, non mettevano le scarpe ai piedi.
Il 2 giugno 1944 gli Alleati arrivarono a Roma. Il 25 aprile 1945 finì la guerra. L’albergo Victoria era stato requisito dagli – Angloamericani, io ero diventato impiegato degli Alleati: «Civilian manager of a rest hotel», per cui avevo il diritto di circolare liberamente in tutta l’Europa e per di più di fare il pieno di benzina per la mia automobile gratuitamente ad ogni stazione di rifornimento militare o. diplomatica. Fui quindi il primo non diplomatico svizzero a visitare da Roma la Confederazione.
Il 1° agosto 1945 arrivai a Teufen con la più giovane delle mi’! figlie, che era rimasta a Roma perché troppo piccola per essere inviata in Svizzera nell’estate 1943 insieme al fratello ed alla sorella. Arrivata ormai a cinque anni, doveva fare una cura di latte e di tranquillità, stando insieme a loro per ricreare il nucleo familiare.
Con mia grande sorpresa e disappunto constatai che i miei figli – e del resto anche i loro compagni che venivano dall’Italia – avevano completamente dimenticato l’italiano, non erano più bilingui. Capii subito che .un reinserimento nelle scuole italiane sarebbe stato impossibile e che avrei dovuto trovare una soluzione, almeno fino a quando non si fossero reinseriti nella lingua italiana in modo tale da non apparire troppo « Teteski » e potersi affiatare con i loro compagni italiani, per i quali a quell’epoca tutto ciò che era pur lontanamente tedesco era in genere oggetto di risentimento.
Man mano che altri svizzeri ebbero il permesso di recarsi in Svizzera a visitare i loro figli, tornarono con. la stessa esperienza. Fu allora che maturò nella mia mente la possibilità e la convenienza di creare una Scuola Svizzera a Roma; scuola che avrebbe dovuto funzionare solo fino al reinserimento dei nostri figli nelle scuole italiane.
La situazione delle scuole statali italiane era diventata oltremodo disagiata. Erano state praticamente tutte occupate dagli sfollati e, nelle aule che erano rimaste a disposizione della scuola, gli alunni si pigiavano in due e tre turni in classi di quaranta e cinquanta, specialmente nelle elementari.
Pregammo la signora Straub, moglie di un ingegnere della Ferrobeton, insegnante lei stessa, che si recava a Teufen a visitare suo figlio, di farsi presentare dalla direttrice del Kinderheim, signorina Watcher, la Kinderfralein che essa aveva scelto per i miei figli, e che doveva anche far da insegnante elementare per la miniscuola di Roma.
Nel frattempo la «Pro Juventute » svizzera, alla quale ci eravamo rivolti per aiuto quando trasferimmo i ragazzi dalla Svizzera a Roma, fece una inchiesta in proposito mentre provvide ad organizzare nel modo migliore il viaggio. Il 2 novembre 1945 una carovana di una cinquantina fra bambini, giovani ed adulti partì sotto la guida della signorina EIsa Waelly di Wattwil – che era stata da me ingaggiata quale assistente dell’asilo d’infanzia ed insegnante – e della signora Straub.
Le Ferrovie Federali Svizzere misero a disposizione del gruppo un vagone (durante o dopo la guerra i vagoni non superavano i confini dello Stato) che avrebbe dovuto portarli fino a Roma. A Milano i funzionari delle Ferrovie dello Stato si rifiutarono di farlo proseguire nel timore che, essendo in buone condizioni e provvisto di vetri a tutte le finestre, venisse preso di assalto dai viaggiatori in una delle innumerevoli fermate, dentro e fuori stazione, inevitabili a quei tempi.
La rete delle Ferrovie dello Stato era stata letteralmente sconquassata dalla guerra. Di tutti i ponti sul Po, ne era rimasto agibile solo uno fra Rovigo e Ferrara. Il gruppo quindi, partendo da Milano, passando per Verona e Venezia, toccò Padova, Rovigo, Ferrara per arrivare. dopo 24 ore a Bologna. Da Bologna, rimontando a Parma, passando per Sarzana, Pisa, Grosseto giunse a Roma dopo 52 ore dalla partenza da Milano. Era la tarda mattinata del 5 novembre 1945.
I genitori che avevano figli sul treno si davano il turno alla stazione perché a quell’epoca le informazioni sui treni erano. molto vaghe; finalmente -si seppe che un treno in arrivo da Civitavecchia potava con sé l’ormai famoso vagone. Tutti coloro che erano raggiungibili telefonicamente furono avvisati. Con somma sorpresa degli astanti uscì da un vagone, che aveva al posto dei vetri pezzi di compensato, una frotta di bambini dai sei ai quindici anni, puliti e lindi, ordinati ed allegri, che cantavano a -gola spiegata «Wir sind die jungen Schweizer». La scena aveva qualcosa di surreale. La signorina Waelly, aiutata da alcuni genitori, era riuscita anche grazie all’aiuto della Croce Rossa a portare i suoi pupilli sani e salvi a Roma. Non aveva chiuso, occhio per 62 ore!
Dopo un paio di giorni durante i quali tutti i partecipanti alla trasmigrazione collettiva si rimisero in sesto con abbondanti dormite, cominciammo a, far scuola a casa mia, senonché il viaggio aveva avuto un effetto propagandistico tanto che eravamo già arrivati a ben cinque alunni; dopo un paio di settimane ne vennero altri quattro. Era impossibile farli venire tutti all’albergo Victoria, requisito dal comando alleato. Poteva considerarsi un paradosso che, mentre le ferite della’ guerra erano ancora aperte, in un albergo, praticamente angloamericano si aprisse una scuola straniera in lingua tedesca. Comunque, per una decina di giorni avemmo cinque alunni che studiavano in sala da pranzo e facevano ricreazione a Villa Borghese, dopo aver attraversata il Corso d’Italia sul quale ogni cinque minuti passava un’automobile od un tram della circolare interna.
La soluzione del problema dei locali, non entusiasmante, la trovammo servendoci delle stanze del Circolo svizzero, che a quel tempo aveva la sua sede nell’appartamento del pianterreno del Palazzo Moroni al n. 2 della Salita -San Nicola da Tolentino, Era una soluzione di ripiega ma, faute de mieux, ne fummo felici e grati al Presidente del Circolo, l’indimenticabile Serafino Hensemberger, che, pur non avendo figli propri, fu sempre un grande amico e sostenitore della nostra scuola.
L’appartamento aveva pochissima luce anche in giornate di sole, la corrente elettrica veniva erogata in modo irregolare e scarso, le lezioni si tenevano grazie alla poca luce che potevano dare delle lampade a petrolio. Non mancava però l’aria di campagna grazie alla Caserma dei Corazzieri che aveva le stalle dirimpetto al Circolo svizzero. In questa situazione alquanto disagiata ebbi la fortuna di incontrare ad un ricevimento un certo capitano Hartman, inglese, capo dell’amministrazione dei beni nemici a Roma. Parlando del più e del meno gli prospettai il nostro problema logistico. Con mia somma sorpresa mi ritelefonò il giorno dopo, proponendomi di prender in affitto dalla chiesa luterana tedesca una parte dell’Istituto archeologico germanico, il cui stabile era di proprietà della chiesa stessa e che era vuoto, perché tutta la biblioteca era stata evacuata nelle miniere inutilizzate del Salzkammergut.
Fu così che ci trasferimmo a via Sardegna, in locali molto, troppo grandi per i nostri pochi alunni. Nel frattempo avevamo organizzato un giardino d’infanzia gestito a turno, volontariamente, dalla signorina Wissman e dalla signora Giangiabella. Avevamo anche organizzato le prime lezioni d’italiano. Serafino Hensemberger ed io, servendoci delle nostre rispettive falegnamerie, avevamo costruito venti banchi da scuola servendoci delle tavole di legno di pino delle casse alleate, nelle quali arrivavano dagli Stati Uniti le conserve di Corned beef e M & V, il famigerato Meat and Vegetables, base per un paio di anni dei nostri pasti. Alla fine dell’anno la scuola era arrivata a 10 alunni; le iscrizioni per l’anno seguente erano aumentate a 16. Cominciavano ad interessarsi alla nostra scuola anche alunni tedeschi, che, privi della loro scuola, si stavano aggregando alla nostra. Visto che la scuola ormai esisteva e se ne prospettava la continuazione, decidemmo che fosse l’ora di darle anche una veste legale. Il 25 maggio 1946, nella Sede del Circolo svizzero fu tenuta l’Assemblea Costituente della Associazione pro Scuola Svizzera di Roma con l’elezione del Comitato scolastico. I membri erano tutti genitori di alunni che avevano sin dall’inizio collaborato validamente alla sua creazione.
Presidente Alberto H. Wirth
Vicepresidente Ing. Jost Luchsinger, Direttore della Soc. Ital. Lavori Marittimi / SILM
Membri O. Borrnuth della ditta Braendli; Ing. H. Straub della ditta Ferrobeton; Ten. Col. W. Ruppen, Vicecomandante della Guardia Svizzera
Man mano che si presentavano, i problemi dell’insegnamento scolastico venivano- risolti con coscienza e serietà, anche se con slancio garibaldino mentre noi tutti eravamo impegnati a rimettere in sesto le nostre aziende.
Sin dall’inizio la nostra scuola si è sempre retta su di uno spirito volontaristico. Il bilancio del primo anno può dare una idea della situazione. Il materiale veniva regalato: io davo vitto, alloggio e salario alla insegnante che percepiva direttamente dai genitori degli alunni una quota parte di salario extra. Le spese di gestione erano ridotte al minimo.
Mentre i signori del Comitato gestivano e dirigevano la scuola, le loro signore facevano il giro della colonia per chiedere ai connazionali un obolo per la cassa scolastica, sempre vuota.
All’inizio del secondo anno scolastico avevamo 23, alla fine 37 alunni. Due erano gli insegnanti: la signorina Maria Fischer di Meggen (Lucerna) per le prime tre classi elementari ed il signor Kurt Stossel di Rorschach (San Gallo) per la quarta, la quinta e la prima media. Come avevamo progettato, la scuola doveva crescere di una classe ogni anno fino a raggiungere la struttura che aveva allora quella pubblica svizzera: cinque classi elementari e quattro medie. Avevamo inoltre un minigiardino d’infanzia su base volontaristica.
Un processo di adattamento dei programmi scolastici italiani e svizzeri ebbe inizio grazie alla cordiale collaborazione di un mio compagno di classe del «Torquato Tasso », il prof. Luigi Salvini, Direttore Generale della Scuole delle minoranze linguistiche in Val d’Aosta, Alto Adige, Friuli orientale e delle scuole italiane all’estero. Nessuna scuola straniera ha avuto uno specialista di capacità ed impegno paragonabili a lui. Sino alla sua prematura morte è stato il nostro consigliere ed è grazie al suo aiuto ed al suo impegno che la nostra scuola divenne — senza saperlo – un qualcosa che allora ufficialmente non esisteva e fu battezzato «scuola d’incontro ».
Grazie allo spirito sportivo del signor Stossel, insegnante delle medie, ebbero inizio le visite culturali a monumenti e musei, gite impegnative specie se si pensa alla giovane età’ dei partecipanti. Visite ai Musei Vaticani, Cappella Sistina e fabbrica dei Mosaici, Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano, visita alle Terme di Caracalla con Passeggiata a Domine quo vadis? ed alle Catacombe di San Callisto, gita da Rocca di Papa ai Campi di Annibale, Monte Cavo e giù ad Ariccia. Come exploit di fine anno scolastico il giro a piedi del Lago di Bracciano dalla Stazione di Anguillara per sentieri e lungo il litorale a Trevignano, Vicarello e Bracciano, con ritorno in un treno composto di vagoni merci con panche di legno (eravamo nel 1947) ed i nostri seduti agli sportelloni aperti, con le gambe a penzoloni fuori del vagone: roba da cardiopalma!
Durante l’anno scolastico venne a farci una breve visita il prof. Walter Baumgartner, fondatore e Presidente del Comitato per l’aiuto alle scuole svizzere all’estero. Era stato il primo ad aiutarci, continuò a farlo tutti i lunghi anni che rimase a capo del Comitato. Era il nostro consigliere per tutto quanto concerneva la Svizzera: scelta degli insegnanti, informazioni, appoggio presso le Autorità del Dipartimento dell’Interno dalle quali dipendono le scuole svizzere all’estero.
Alla fine dell’anno scolastico l’Istituto Archeologico germanico ci informò che le casse di libri evacuate nelle miniere del Salzkammergut sarebbero tornate durante l’estate, quindi avevano necessità di rientrare nei locali affittati. L’idea di dover tornare nelle stanze umide e buie del Circolo svizzero non ci entusiasmava, anche perché era evidente che coll’aumento delle classi i locali non sarebbero stati, sufficienti. Quindi, il problema assillante era decisamente quello dei locali.
La gestione della scuola non presentava difficoltà; quel che serviva veniva offerto da qualcuno, a Roma o in Svizzera. Da Roma proveniva il materiale di arredamento e di consumo e dalla Svizzera attingevamo i libri di testo e quel materiale che a Roma scarseggiava o era di cattiva qualità. Oggi è facile sorridere all’idea della mancanza di quaderni, di matite (le biro erano sconosciute, i pennarelli non erano ancora stati inventati). Una zia di nostri scolari ci regalò 500 franchi. Fu la carica iniziale che portò all’acquisto della nostra scuola. Ci rendemmo conto che, mentre i prezzi in Italia erano molto aumentati, la lira era calata molto più e vi era un divario talmente grande da poterci aiutare a risolvere il problema.
Avevo udito che la colonia svizzera di Milano stava costruendo un grattacielo, il Centro Svizzero, con denaro anticipato dalla Confederazione, proveniente dai pagamenti effettuati dallo, Stato italiano alla Svizzera per le spese da questa sostenute durante la guerra per gli internati ed i rifugiati italiani.
Avuta la conferma della disponibilità di ulteriori fondi. Serafino Hensemberger, presidente del Circolo Svizzero ed io ci ponemmo alla ricerca di uno stabile che facesse al caso nostro.
Quel che cercavamo era una casa in condizioni abbastanza buone, che avesse almeno un pezzetto di giardino per la ricreazione, fosse raggiungibile senza difficoltà dalle due circolari (le due linee tramviarie, interna ed esterna, che collegavano i vari quartieri della città). Allora, a Roma, ad eccezione degli autoveicoli militari e di pochissime macchine di servizio, le automobili quasi non esistevano. I nostri ragazzi facevano grandi corse in bicicletta, corse che vinceva chi andava a mano libera più lontano. Se non erro Mario Ruppen riuscì – partendo da via Malpighi, passando per Piazza di Porta Pia, Piazza Fiume, giù per la villa Borghese; attraverso Ponte Margherita, Via Cola di Rienzo – ad arrivare al Vaticano; il tutto senza mai toccare il manubrio della bicicletta e senza frenare.
Ogni mattina, dopo aver «avviato» le nostre aziende, «lo zio Serafino» ed io partivamo alla scoperta dell’impossibile. Una delle prime offerte fu quella della ex scuola tedesca di via Savoia. Era stata sequestrata quale bene nemico e consegnata all’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) insieme alle altre proprietà nemiche perché con il ricavato delle vendite potesse autofinanziarsi. La scuola germanica era sparita. La Germania era a terra; l’offerta era quanto mai allettante.
Per poco denaro si poteva acquistare la scuola con tutto il terreno (per la verità non molto) e tutto l’arredamento pertinente. Mi ribellai. L’idea di approfittare della disgrazia altrui mi era odiosa e, poiché gli argomenti di coloro che erano favorevoli a concludere l’affare erano certamente validi, mi venne l’idea di andare a chiedere il parere di una persona che tutti rispettavano, un amico della Svizzera, Presidente dell’istituto di cultura italo – svizzero al Palazzetto Venezia e allora Presidente della Banca d’Italia: Luigi Einaudi.
Non dimenticherò mai la scena. Eravamo in tre, Serafino Hensemberger, l’ingegner Luchsinger ed io. Rimanemmo sorpresi di vedere il Presidente Einaudi, che in quell’enorme salone della Banca d’Italia pareva ancora più piccolo di quanto non fosse, accoglierci come se avessimo bisogno – sembrava – di un tutt’altro genere di aiuto. Dopo avergli brevemente spiegato la questione con le nostre diverse valutazioni, gli chiedemmo se fosse il caso di acquistare la scuola germanica; rispose con una sola parola a voce alta: «MAI». Ci spiegò poi che lui era addolorato che un bene culturale fosse stato sequestrato e che avrebbe fatto del suo meglio per farlo dissequestrare aggiungendo che, molto prima di quanto non si ritenesse possibile, la Germania sarebbe ritornata sulla scena internazionale ed avrebbe relativamente presto ripreso il suo posto nel consesso delle nazioni.
In seguito a ricerche durate diversi mesi, finimmo per trovare la villa all’uopo adattata che è tuttora sede della scuola. Era una villa di stile toscano, costruita dall’avvocato Cimino per sé e la sua famiglia. Morta la moglie, sposata la figlia e partito, il figlio per il Sudamerica, l’aveva data in affitto ad un fantomatico ente, che, come successivamente si constatò altro non era se non la guardia del corpo del Duce; i «Moschettieri .’ del Duce », i. quali potevano, a quanto pare, ma non ce ne siamo assicurati di persona, raggiungere la Villa Torlonia attraverso un passaggio sotterraneo.
Comunque esisteva una scaletta a-chiocciola che dal sotterraneo portava ad un cunicolo il quale – fino al 1978 allorché fu murato – servì quale grottino per il vino e le gazzose.
Finita la guerra la villa era stata occupata da una compagnia di truppe indiane, i Sikhs, che però vi rimasero solo brevemente. Fu quindi presa dagli sfollati, che l’avevano ridotta in uno stato pietoso. La villa aveva oltre al pianterreno due piani, un sottotetto il cui pavimento di legno era stato asportato per servire da combustibile, un tetto a spiovente e la famosa Torretta che allora pareva ancor più alta perché mancava l’ultimo piano. La scala signorile prendeva tutto il posto dell’attuale segreteria e dell’aula n. 12 al primo piano. Era una scala maestosa. Il sotterraneo aveva nell’attuale sala da pranzo, entrando, a sinistra da una parte una fila di sei gabinetti, dall’altra’ dodici lavandini; in mezzo quattro docce, ricordo dei Moschettieri del Duce.
L’ingegner Provera, della ben nota ditta Provera e Carrassi, dopo avere acquistata questa villa per abbatterla e costruire sul terreno villini multifamiliari, non solo aveva incontrato un deciso divieto dalle autorità capitoline, ma si era reso conto che non sarebbe mai riuscito a far sloggiare i senzatetto a meno di pagare una salatissima buonuscita. Annoiato di tutte queste complicazioni, si era deciso a vendere la villa per poco, tanto quanto l’aveva pagata; esattamente quarantacinque milioni di lire, compresi i 4000 mq di terreno.
Lo stabile era di ottima costruzione, la posizione fra Piazza Croce Rossa fermata della Circolare interna, e Piazza Galeno, ove passava la Circolare esterna, addirittura ideale; però ci voleva un bel po’ di coraggio per impelagarsi, oltre tutto con soli cinquecento franchi in cassa, in un affare del genere. La prima cosa che facemmo fu di chiedere all’ingegner Jost Luchsinger, vicepresidente della Scuola, una perizia molto ben fatta e circostanziata che fu spedita alla direzione generale delle finanze a Berna. Dopo una settimana telefonai e con mia somma sorpresa mi sentii dire che erano del parere che l’affare fosse proponibile e andassi avanti. Mi pareva un sogno. La Svizzera allora veniva ancora gestita, secondo me, con mentalità e sistemi di emergenza, senza burocrazia, quasi come una cooperativa.
Andammo dagli sfollati e ci accordammo che avrebbero lasciato la casa contro pagamento di duecentomila lire a famiglia. Per la verità, si erano ormai già- tutti provvisti di altri appartamenti. La casa non era più agibile, le tubature dell’acqua fatte di piombo erano state divelte e vendute ai ferrivecchi; le porte sfondate, i vetri delle finestre rotte, ma vi erano ancora mobili, in pessimo stato. Più o meno per ogni famiglia uno montava la guardia per assicurarsi la prevista buon uscita.
Essendo dieci famiglie sarebbero stati due milioni. Nel frattempo però la Banca d’Italia aveva ridotto il ritmo dei rimborsi alla Svizzera, mentre l’ingegner Provera insisteva per vender subito. Decisi di rischiare il tutto per tutto. Fissammo la data dell’acquisto.
Lo stabile era intestato ad una cooperativa, la «Providendo Providet», formata da dodici soci. Si trattava di trovare altrettanti soci che subentrassero. Li trovai grazie al Tenente Col. U. Ruppen della Guardia Svizzera in Vaticano, che mi mise a disposizione dodici balde guardie svizzere, trasportate in pulmino dal notaio. Pagai con due assegni personali postdatati alla data per la quale mi avevano assicurato che il denaro sarebbe arrivato; uno di essi per l’importo di quindici milioni, l’altro di trenta, ambedue assolutamente privi di copertura.
Con mia grande preoccupazione i giorni e le settimane passavano senza che la Banca d’Italia effettuasse il trasferimento. L’allora Legazione di Svizzera, quella che oggi è l’Ambasciata Svizzera, si rese garante presso la Banca Commerciale Italiana del buon fine degli assegni e questa li pagò, addebitandomi fino al rientro dei fondi i soli interessi passivi. Con mio spavento, il giorno dopo l’atto di acquisto un mio impiegato mi informò di aver letto in un giornale che la Polizia aveva caricato le masserizie degli sfollati e le aveva portate «fuori porta». Occupano la villa che doveva diventare sede del Commissariato di P.S. di zona.
Mi precipitai a via Malpighi. Non vi era dubbio. La villa era occupata dalla Polizia; grossi camion militari scaricavano scrivanie, sedie, armadi, macchine da scrivere, quanto era necessario per installare uffici. Telefonai all’ingegner Proverà, che mi disse più o meno: «Ah … sì … , mi ero dimenticato di dirVi che alcuni giorni fa, siccome pareva che l’affare non si concludesse, ho fatto fare dalla Cooperativa «Providendo Providet» un contratto di affitto con il Ministero dell’Interno ». Se lo avessi avuto sotto mano …..
La situazione pareva disperata. Fortunatamente avevo un ottimo amico al Ministero degli Interni, il Prefetto Barone Francesco Tedeschi della SS. Annunziata, capo dell’ufficio Affari Riservati, fedele amico della Svizzera, che conoscevo dall’epoca del suo primo concorso di accesso nell’amministrazione dello Stato. Mi recai da lui e gli sottoposi il problema.
Per farla breve due giorni dopo, verso le dieci di sera, mi telefonò: «Domattina alle 6 la Polizia esce; il contratto è stato annullato, anzi non è mai esistito. Attenzione a che dell’uscita della Polizia non se ne accorgano gli sfollati che ‘potrebbero rientrare ».
Quella notte non dormii. Alle 4.30 svegliai un giovane segretario della Legazione svizzera, futuro Ambasciatore a Roma, il dott. Antonino Janner. Dopo una sfilza infinita di squilli, chiese al telefona con voce addormentata che diavolo stesse succedendo. Era al corrente dell’antefatto. Lo pregai di andare in Legazione – sapevo che aveva una chiave degli uffici per casi di – emergenza -, di prendere un paia di lettere di .protezione e di venire alla Scuola. Insieme a due facchini arrivai anch’io. Non vi era più traccia di Polizia e mi misi con i facchini a sfilare parte e finestre per rendere la casa ancora più inabitabile. Il dott. Janner portò le lettere di protezione della Legazione che fissammo al cancella ed al portone. Dopo due giorni feci murare il pezzo di travertino con su Io stemma svizzero e la dicitura «SCUOLA SVIZZERA» (cm. 25,7 48). Questo fu l’inizio della nostra scuola di via Marcello Malpighi 14.
Durante l’estate 1947 iniziarono i lavori di adattamento della Villa Cimino alle necessità della Scuola svizzera. Come primo lavoro fu smontato lo scalone d’onore che andava dal pian terreno al primo piano e se ne ricavarono due grandi stanze, oggi la segreteria e l’aula n. 12. Con denaro raccolto dalla Colonia svizzera di Roma e con un contributo di 4 milioni di lire da parte della Confederazione, si costruì l’aula che doveva servire da sala di ginnastica e riunioni per la scuola e sala per feste del Circolo svizzero di Roma.
La costruzione, che all’inizio pareva semplice, finì per diventare un vero e proprio lavoro di Sisifo. Appena si aveva raggiunto una profondità sufficiente ad iniziare la gettata dei piloni sui quali doveva poggiare la costruzione, facendo dei tasti con le paramine (lunghe aste che venivano infilate in terra e battute per costatare l’integrità del sotto- suolo), le aste sparivano perché si erano infilate in una-galleria di pozzolana e così via; di galleria in galleria finì che le basi della sala furono gettate a 25 metri di profondità.
La sala fu usata i primi anni anche quale sede del giardino d’infanzia. Essa diede al Circola svizzero la possibilità di organizzare riunioni e feste che sarebbero state impensabili nella vecchia sede di via San Nicola da Tolentino.
Fu una vera fortuna che i lavori venissero effettuati da una ditta che allora era ancora svizzera, la «Ferrobeton», che prese a suo carica tutti i lavori supplementari richiesti da questi imprevisti.
La Scuola Svizzera, che iniziò le lezioni ai primi dell’ottobre 1948 nella nuova sede, era ormai una scuola regolare. Infatti le difficoltà dell’insegnamento nella scuola statale italiana, causate principalmente dalla difficoltà di reperire locali adatti per rimpiazzare le molte scuole occupate dagli sfollati e le prospettive negative di soluzioni rapide, invogliarono sempre più anche genitori italiani ad inviare i loro figli in scuole private.
Agli alunni svizzeri, di madre svizzera, a quelli tedeschi, la cui scuola era stata chiusa nel 1943, si aggiunsero man mano diversi italiani che, conoscendo genitori di nostri alunni, avevano appreso della serietà della nostra scuola. ln questo momento l’immagine prestigiosi della Scuola Svizzera era al suo apogeo. Il paese di Pestalozzi e di Dunant, il paese che era riuscito a, tenersi fuori dal conflitto mondiale ed aveva, per quanto possibile, lenito i dolori procurati in tante famiglie appariva, con la sua libertà di pensiero ed il suo relativo’ benessere, un buon punto di riferimento anche come guida ideale per la gioventù. Né va sottovalutato l’effetto, a quel tempo positivo, dell’emigrazione di disoccupati delle industrie belliche del settentrione nonché quello dell’opera benefica del «Dono svizzero per le vittime della guerra,» in campo sociale ed ospedaliero.
Il primo anno della scuola nella nuova sede registrò venti bambini nel giardino d’infanzia e 69 alunni in cinque classi elementari e tre medie (la quarta media che faceva parte della scuola dell’obbligo svizzera fu istituita l’anno successivo). In tutto otto classi con quattro insegnanti. Due maestre elementari insegnavano ciascuna in due classi mentre alla quinta elementare ed alle tre medie erano adibiti due insegnanti di scuola secondaria svizzera – uno per le materie letterarie, l’altro per la matematica e le scienze – i quali impartivano a turno, in classi composte ad hoc, le loro lezioni. Un insegnante per l’italiano completava l’organico della Scuola.
Si trattava senz’alcun dubbio di una soluzione non ottimale, anche se il numero molto limitato degli alunni (si pensi alle classi di 50/60 alunni di quell’epoca!) facilitava il compito. Gli insegnanti erano scelti dal prof. W. Baumgartner ed erano per ovvie ragioni giovani appena usciti dalle magistrali. Mi rammento Theo Loosli, che, con i suoi 18 anni e la faccia da ragazzo, pareva più uno scolaro che non un insegnante. Eppure l’entusiasmo era tanto e ci sentivamo tanto, tanto fortunati e ricchi, in modo particolare per quanto atteneva allo spazio più che sufficiente per scolari ed insegnanti.
Dopo le ristrettezze del vecchio Circolo Svizzero e dell’Istituto Archeologico germanico, ci sembrava addirittura di vivere nell’abbondanza all’interno della palazzina di Via Malpighi e, si badi bene, non esisteva allora né terzo piano, né la costruzione che attualmente ospita i giardini d’infanzia e l’appartamento del portiere.
Quel che oggi si può considerare come il minimo strettamente necessario per poter svolgere un’attività scolastica, appariva allora come un miracolo, una conquista, un palese segno del ritrovato benessere.
La suddivisione della casa è fatta ben presto: un locale, situato al pianterreno, per il giardino d’infanzia (mentre il resto era occupato dal Circolo Svizzero) e quattro aule al primo piano costituivano tutta la scuola. Il giardino pareva infinito, le ricreazioni si potevano finalmente fare all’aria aperta.
Una delle prime cure era stata, per ovvie ragioni, di trovare un guardiano-portiere-bidello adatto. Grazie all’interessamento del Col, Ulrich Ruppen, allora Vicecomandante della Guardia Svizzera Pontificia, il 1° ottobre 1948 prese servizio un giovane vallesano, che avendo sposato un’italiana, intendeva rimanere a Roma. Se lo volete vedere com’era a quel tempo, basta andare alla mensa della Guardia Svizzera in Vaticano. Sull’affresco di fondo vedremo il passaggio delle Alpi del primo contingente di Guardie Svizzere, guidato dal Legato pontificio Cardinale Matthias Schiner, che cavalca una mula bianca, come valeva la tradizione di Santa Romana Chiesa. Il baldo giovane che guida la mula tenendone le redini è il nostro Giulio Imseng che tutti ben conoscono. Prese possesso di quel che teoricamente era l’appartamento del portiere, ma in effetti era ben poco più di una guardiola. Un’entrata di pochi metri quadri. una cameretta da letto, un cucinino ed un gabinetto senza bagno. Il tutto reso quasi inabitabile da infiltrazioni d’acqua provenienti dallo spiazzo antistante la Villa. Dei gradini portavano verso la Villa, il resto del giardino era, con grande gioia degli alunni, una specie di giungla con una fontanella in mezzo, sia pur senz’acqua, salvo quando pioveva.
Giulio Imseng si diede subito da fare per rifinire i lavori di riattamento più necessari che erano stati effettuati durante l’estate ed assunse con una naturalezza sorprendente il suo ruolo di «Gigante Gentile» che tutelava la sicurezza e l’incolumità degli alunni.
I salari che potevamo pagare erano ben povera cosa per cui, avendo posta in abbondanza, pensammo di facilitare la soluzione dei problemi economici dei nostri insegnanti istituendo al secondo piano una specie di pensionato ,idea facile ad attuarsi in quanto nessuno era sposato. Facemmo approntare dal padre di uno dei nostri alunni, un falegname, profugo jugoslavo, cinque stanze da letto e raccogliemmo nella Colonia svizzera tutto quanto era necessario alla conduzione di questa mini- pensione.
Ci mancava il cuoco. Avendo fatto circolare la voce fra gli amici, ebbi la fortuna di farmi raccomandare, da un Monsignore della Propaganda Fide, un «giovane pulito, servizievole, volenteroso ed onesto », che per dieci anni era stato il cuoco del Vescovo di Nocera Umbra che desiderava trasferirsi a Roma. Non avemmo dubbi che il giovane servizievole che aveva con successo provveduto alla mensa vescovile sarebbe stato un ottimo cuoco per la nostra scuola e fu così che il 20 settembre 1949 Aldo Pignani, al tempo ancora scapolo, anche se promesso sposo, prese possesso della cucina, allora quanto mai primitiva.
Il Circolo Svizzero aveva portato con sé la «Madre della Colonia », Madeleine Allemann, una gentile delicata vecchietta che faceva da madre alle bambine della nostra scuola e curava i bozzi e le piccole ferite degli alunni. Aveva una stanza grande al pianterreno, fredda e brutta, ove adesso sono i bagni dei ragazzi.
Qui finisce l’organigramma della Scuola, perché per quindi anni non ebbe segretaria o amministrazione a sé stante. II lavoro, era suddiviso fra gli insegnanti che incassavano le rette; mia moglie e il mio personale – l’indimenticabile Adolfo Acconci profugo abruzzese da Berlino Est – che facevano volontariamente tutto il lavoro che poi veniva raccolto e codificato dal cassiere, il signor Raymond Bossy, funzionario della Amministrazione speciale dei Beni della Santa Sede, il quale aveva due figli alla nostra scuola ed apparteneva al nostro Comitato.
Il Comitato ebbe sempre fortuna, perché al momento giusto spuntava qualche membro della Colonia svizzera che – come su misura – assumeva la funzione che era carente di titolare. L’appoggio, i consigli e gli aiuti del prof. Walter Baumgartner, il patrono delle scuole svizzere all’estero, ci furono di grande aiuto, ma ci mancava qualcuno in loco che fosse un vero specialista di materie scolastiche, anche se da parte italiana, prima con il prof. Luigi Salvini, poi con la professoressa Maria Letizia Maroni Lumbroso, Presidente della Fondazione Ernesta Besso che teneva corsi di specializzazione per insegnanti e per ultimo con il prof. Luigi Volpicelli, per lunghi anni Rettore della Facoltà del Magistero della Università di Roma, avemmo ottimi consiglieri. La fortuna valle che il prof. dr. Max Husmann, fondatore e proprietario dei famosi Istituti Minerva in tutta la Svizzera e dell’Istituto dello Zugerberg, frequentato prima e durante la guerra da molti alunni italiani, si ritirasse ancor pieno di energia a Roma, ove, con ammirevole regolarità, assolveva quotidianamente un giro di 18 buche al Golf dell’ Acqua Santa sulla Via “Appia.
Accettò di far parte del Comitato della scuola e benché avesse sempre rifiutato la carica che gli spettava, di Presidente, lo fu de facto in tutto quanto concerneva la parte didattica ed i rapporti nonché la guida degli insegnanti.
Nell’inverno 1954 il tetto della villa ebbe dei danni considerevoli.
Il piancito del sottotetto era stato asportato, gli sfollati lo avevano usato quale combustibile. Anche l’intelaiatura sulla quale poggiavano le tegole era marcia ed era evidente che si dovesse fare un nuovo tetto. Ne approfittammo per costruire il terzo piano, nel quale furono ricavati due appartamenti, il più grande per il direttore e l’altro per un insegnante sposato. Il lavoro fu eseguito in economia sotto la direzione dell’Ing. Jost Luchsinger. Vicepresidente della Scuola.
La situazione di quei tempi, che imponeva sforzi per la ricostruzione delle aziende, per la ripresa della vita civile, insieme alle difficoltà di trasporto (non per sovrabbondanza come oggi, bensì per carenza) rendeva la soluzione delle vacanze estive – di quelle invernali non se ne parlava neppure – degli alunni quanto mai difficile e problematica.
Il prof. Walter Baumgartner ebbe una luminosa idea. A Davos Wolfgang, in riva ad un laghetto vi è un «Maxichalet », il «von Sprecher Haus » di proprietà della città di Winterthur, che vi ospitava e tuttora ospita i suoi alunni delle medie e del ginnasio. Dopo le vacanze estive, in Svizzera la scuola riprendeva immediatamente, passato il Ferragosto. Dal 17 agosto in poi per oltre dieci anni, a partire dal 1949, l’Associazione per l’Aiuto alle Scuole svizzere all’estero (H.K.A.S.S) prese in affitto lo «Sprecher Haus» e vi istituì una colonia estiva che durava un mese.
Durante questo mese, dai 50 ai 70 alunni ed alunne di tutte le scuole svizzere all’estero, comprese quelle ormai sparite, come quelle di Alessandria d’Egitto e del Cairo, potevano passare un mese di vacanze in Patria. Non solo chi poteva pagare la retta, invero molto modesta, ma anche chi non ce la faceva, andava lo stesso e si trovava sempre qualcuno, se non altro il H.K.A.S.S., che provvedeva in merito. Oltre alle gite ed ai giochi, gli insegnanti. – provenienti anch’essi dalle diverse scuole – davano corsi di lingua tedesca, di storia e geografia svizzera.
Il soggiorno di vacanze si chiudeva con un viaggio circolare di diversi giorni, servendosi di mezzi pubblici e dormendo negli ostelli della gioventù dislocati in tutta la Svizzera. Partendo da Davos, i partecipanti scendevano giù per la valle del Reno al Lago di Costanza, visitavano San Gallo, proseguivano per Zurigo. Da Lucerna essi visitavano il Rutli e l’Archivio di Svitto (che era appena stato terminato), recandosi quindi a Berna a visitare il Palazzo Federale ove erano regolarmente ricevuti dal Consigliere Federale Philipp Etter, capo del Dipartimento dell’Interno dal quale dipendono le Scuole Svizzere all’estero. Proseguendo infine per Losanna, lungo il lago di Ginevra, risalivano il Vallese e tornavano a Davos.
Oggi un viaggio di questo genere fa sorridere, allora era un’invenzione spettacolare e se ne parlava per mesi. Peccato che questa organizzazione, la quale portava a vivere in comunità giovani di diversi paesi per un mese, creando amicizie che, a giudicare dai miei figli, durano ancora, sia stata vittima del benessere, del cosiddetto progresso economico, se non anche dell’istituzione degli Skilager invernali che, sia pure in modo ridotto e scuola per scuola, ricreano per breve tempo la vita in comunità.
L’atmosfera della Scuola sviluppava una grande familiarità, connessa ad un grande rispetto della personalità di docenti e alunni. Avemmo la fortuna di trovare nella dottoressa Cesira Maria Giachetti, da tempo deceduta ed alla quale va il nostro grato ricordo, un’insegnante eccezionale. Con due lauree, una conseguita a Firenze ed una alla Sorbonne di Parigi, avvalendosi di una profonda conoscenza della cultura, della lingua e dell’arte italiana, essa aprì gli occhi di alunni ed insegnanti al bello ed al senso della vita. II dopopranzo era Direttrice della Biblioteca della Facoltà di Medicina dell’Università di Roma; la mattina insegnava l’italiano ed il francese alla nostra scuola. A tutte le ore era disponibile per i «suoi ragazzi », che comprendevano oltre agli scolari anche i maestri. Favoriva tra l’altro gli incontri fra gli insegnanti, che spesso rischiavano di isolarsi e fare una specie di blocco elvetico in terra italiana .invitandoli a casa sua insieme agli studenti di medicina italiani.
Dopo sette anni era ormai evidente che non potevamo gestire la scuola senza un vero e proprio direttore. Il prof. Baumgartner ci inviò il dotto Rudolf Greminger, che diresse la scuola dal 1952 al 1967, cioè nell’epoca di sviluppo della scuola fino alla maturità.
La Signora Greminger ebbe la supervisione della gestione del reparto casa, il quale man mano si ridusse a causa dell’aumento delle classi che fagocitarono le stanze adibite a camere degli insegnanti. La gestione del dott. R. Greminger caratterizzò un periodo di assestamento. Sotto la sua guida accorta, con il suo modo di incoraggiare la collabora- zione dei suoi dipendenti, riprese, continuò e per così dire si istituzionalizzò l’atmosfera familiare che vigeva nella nostra scuola. Ciò mi fu confermato dal Pastore Hessing della Chiesa evangelica luterana di Roma che dava lezioni di religione. Un giorno egli mise in rilievo che quando egli veniva da noi, tutti gli scolari, piccoli e grandi, non appena entrava dal cancello, man mano che lo vedevano gli correvano incontro a dargli spontaneamente la mano. All’inizio aveva trovato questa familiarità sorprendente e quasi eccessiva, poi, a poco a poco aveva capito quel che di tipicamente svizzero, di democratico e di décontracté vi era nella nostra atmosfera.
Sin dal primo giorno un problema quotidiano fu e continuò ad essere il reperimento dei fondi per migliorare la scuola. Malgrado le sempre maggiori sovvenzioni della Confederazione Elvetica, ben presto si dovettero fare grossi sforzi per riuscire a pagare ai nostri insegnanti stipendi confacenti.
Eravamo confrontati con il dilemma quasi amletico: quanto possiamo chiedere di rette scolastiche senza diventare una scuola se non di ricchi almeno di benestanti? Il problema non si poneva per gli alunni svizzeri che accettavamo se necessario anche alla tariffa zero, grazie alle sovvenzioni del popolo svizzero ed a seguito di un accordo con la Società di Beneficenza Elvetica a Roma che ci aveva messo a disposizione senza interessi ben 30.000 franchi svizzeri del suo capitale. Volevamo essere una scuola di élite, ma nel senso dello spirito, non della borsa. Limitati quindi su quel campo dovevamo ricorrere sempre più e con sempre maggiore insistenza al senso di solidarietà della Colonia svizzera di Roma, che non ha neppure lontanamente la capacità contributiva di quella per esempio di Milano o di Barcellona, città eminentemente commerciali ed industriali.
Nel tentativo di risolvere il problema, organizzammo in occasione del decennale della scuola il 5 ed il 6 novembre 1955 il prima Bazar. Le signore del Comitato, aiutate dalle signore del Circolo Svizzero, andarono per oltre sei mesi a raccogliere da compatrioti ed amici oggetti da vendere all’asta a dare in premio per la tombola. Ricamarono, tesserono scendibagni, centrini e liseuses, dipinsero e raccolsero quadri, libri e confezionarono sul momento torte e pasticcini. Il tutto fu messo in vendita nell’Aula, trasformata in un originale mercatino rionale grazie alla collaborazione offertaci spontaneamente da Mario Chiari, famoso scenografo teatrale e del cinema. Enorme successo ebbe la vendita a fette di una maestosa forma di Emmental, offerta dall’allora Direttore Generale dell’Agricoltura della FAO; il nostro amico prof. Dr. F.T. Wahlen, che poi, tornato in Svizzera, divenne Capo del Dipartimento degli Esteri e Presidente della Confederazione.
Grazie a questa sforzo collettivo, riuscimmo ad azzerare i nostri debiti, salvo a ricominciare ben presto a farne di nuovi.
Uno dei problemi quotidiani era la convivenza delle diverse classi elementari e medie con i piccoli del giardino d’infanzia. Erano i problemi di sicurezza e garanzia della incolumità fisica dei piccoli in una casa nella quale la scala principale era quanto mai stretta e ripida, particolarmente per una scuola.
Un altro problema era la guardiola – casupola del portiere che, non avendo un isolamento dal terreno, era continuamente umida e malsana.
Grazie all’interessamento delle nostre autorità centrali si prospettò la possibilità di sanare la situazione con una nuova costruzione che contemporaneamente ospitasse due aule di giardino d’infanzia ampie, luminose, alcuni locali adiacenti per usi diversi ed un appartamento decoroso per il portiere.
L’architetto Arnoldo Codoni di Lugano, direttore dell’Ufficio delle costruzioni della Confederazione in Italia, si interessò in prima persona del progetto, mentre noi, approfittando della quiete di Ferragosto dell’anno 1961, spostammo di quindici metri la grande palma che si erigeva proprio sul posto ove si doveva fare la nuova costruzione. Scavammo una trincea larga quattro metri e lunga quindici; poi fu tagliata la massa delle radici della palma il più distante possibile dal tronco e con una gru della portata di venti tonnellate si fece il « trasloco » della palma, tirandola lungo la trincea.
Ripiantata la palma, alla quale demmo abbondante concime ed acqua (basta guardarla per constatare quanto la cura abbia giovato), mi recai dall’ingegnere responsabile del nostro rione presso la V. Ripartizione del Comune di Roma, persona quanto mai cortese. Obiettò subito che la palma non si sarebbe mai potuta abbattere ed io gli risposi che il posto per la nuova costruzione c’era. Venne e constatò che dopo tutto la palma era veramente più in là di quanto non credesse ….
Per convincerlo della nostra buona fede e delle intenzioni serie, lo pregai di spiegarmi a priori a quale tipo di costruzione lui riteneva adatto ai nostri fini e confacente con il piano di costruzioni locale. Le sue idee collimavano con quelle dell’architetto Codoni. Dopo questi approcci e lavori preliminari, chiedemmo un permesso di costruzione appoggiato da amici che avevamo in Campidoglio. L’architetto Latini. del Comune appoggiò calorosamente la nostra richiesta ed in sei settimane avemmo il permesso di costruzione. Nel 1962 inaugurammo la nuova costruzione.
Un problema di fondo però continuava a rendere la vita della Scuola svizzera difficile. Dopo la guerra l’impostazione dei giovani verso lo studio era profondamente cambiata. Mentre prima la licenza liceale era il traguardo della buona e media borghesia e solo relativamente pochi continuavano gli studi, con il dopoguerra aveva avuto inizio la trasformazione della società a seguito della meccanizzazione ed automazione, causando con altri fenomeni una crescente richiesta di specializzazione a livello superiore.
Mentre le altre scuole straniere a Roma avevano già raggiunto il livello liceale, la nostra finiva con la scuola dell’obbligo, più una quarta media secondo l’ordinamento scolastico svizzero. Naturalmente avevamo sempre defezioni di alunni già dopo la fine delle classi elementari. Infatti era evidente che per un alunno che intendeva comunque arrivare alla licenza liceale fosse più interessante frequentare una, scuola nella quale potesse farsi delle amicizie che sarebbero durate otto anni piuttosto che dividere in due questo periodo.
Ci parve evidente che dovevamo arrivare anche noi ad- una licenza di tipo liceale. Cominciammo a sondare la possibilità di espanderei nella direzione del Ginnasio socio economico che stava avendo una diffusione sempre maggiore in Svizzera. Era una direzione di studio che non ci metteva in concorrenza con la scuola germanica e che ci poteva dare con il prospettato patronato del Cantone di San Gallo, la cui scuola di alti studi economici aveva risonanza europea, quella guida e quel controllo specifico che era al di sopra delle possibilità del Comitato direttivo della nostra scuola.
Era l’inizio degli anni sessanta e le autorità a noi preposte erano molto dubbiose sulla validità della strada che stavamo intraprendendo. Mi rammento benissimo i timori di una produzione di proletariato accademico che esternò il Consigliere Federale H.P. Tschudi, capo del Dipartimento dell’Interno preposto alle scuole svizzere all’estero.
La fuga degli alunni della nostra scuola media in altre scuole ci costrinse a prendere una decisione. O dovevamo ridurre la nostra scuola a giardino d’infanzia ed elementari, oppure dovevamo portarla sino ad una licenza che desse la possibilità di immatricolarsi in una università certamente svizzera, possibilmente anche italiana.
Come avevamo fatto con l’inizio della scuola, con il sistema del «cosa fatta capo ha», decidemmo per il liceo economico (Wirtschaft – gyrnnasium). Il dott. Xavier Leutenegger, membro del comitato direttivo della scuola, si recò a San Gallo ove ebbe colloqui con il prof. Emilio Gsell della “Handelshochschule, che era stato per diverse generazioni il punto di riferimento nello sviluppo degli studi commerciali in Svizzera. A San Gallo stavano organizzando un Liceo economico sociale il cui piano di studi era stato preparato dal Prof Rolf Dubs.
Nel 1965 ebbe inizio con una prima classe il nostro Wìrtschaftsgymnasium che continuò a crescere di una classe ogni anno fino a raggiungere la prima maturità cantonale nell’anno 1970.
Furono anni di continuo adattamento e, senza l’aiuto continuo datoci dagli specialisti di San Gallo, e specialmente dai professori Dubs e Werner, non avremmo mai potuto raggiungere il livello eccellente sin dall’inizio. E’ interessante per inciso che la nostra scuola in questo settore funzionò da esperimento pilota per il sistema scolastico sangallese: infatti loro iniziarono questo nuovo indirizzo scolastico alcuni anni dopo di noi.
Le relazioni sempre più strette fra la nostra scuola ed il Dipartimento della Pubblica Educazione del Cantone di San Gallo, sotto la guida energica del Consigliere Cantonale Ernst Ruesch, portarono alla concessione del Patronato del Cantone di San Gallo alla nostra Scuola.
Prima con l’accordo del 2.12.1968 per il nostro Wirtschaftgymnasium, quindi con l’accordo del 2.2.1971 per tutta la scuola. Sin dall’inizio si stabilì che il Cantone di San Gallo avrebbe avuto un suo rappresentante diretto con voto consultivo nel Comitato direttivo della Scuola, come era già stato fatto per la Confederazione Elvetica che sin dall’inizio era rappresentata nel Comitato da un funzionario di Ambasciata o di Consolato. I più bei nomi del servizio diplomatico svizzero, oggi ambasciatori, sono stati rappresentanti della Confederazione nel, Comitato scolastico. La ragione principale di questo sistema di consiglieri-osservatori era di dare alle autorità a noi preposte la possibilità di avere informazioni dirette da persona di loro fiducia.
Grazie alla garanzia che il controllo delle autorità scolastiche dei Cantone di San Gallo dava alla nostra Scuola ed alla concessione della Maturità cantonale in sede il nostro Wirtschaftsgymnasium (ginnasio – liceo socio economico) finì per diventare una Kantonsschule (liceo cantonale) Sangallese a Roma. Allorché ci accorgemmo che la maturità cantonale non sarebbe stata riconosciuta valida per l’immatricolazione non solo dalle Università italiane ma anche da alcune Università svizzere, chiedemmo la concessione della Maturità Federale svizzera. Penso con piacere a questo exploit unico – la nostra Maturità Federale è la sola che viene effettuata fuori dai confini della Svizzera – dovuta alla cordiale collaborazione dei due rappresentanti religiosi nella Commissione della Maturità Federale: il prof. dr. Jean Leuba della Università di Neuchàtel, pastore evangelico ed il Padre dr. Bonifaz Klingler O.B.S. della Kantonsschule di Sarnen.
Tutto pareva andare per il meglio. I nostri maturi, se svizzeri, potevano immatricolarsi ovunque, anche in Italia; gli italiani potevano immatricolarsi ovunque salvo che in Italia. Generalmente si presentavano immediatamente dopo aver conseguito la maturità svizzera ad una sessione italiana di Maturità, generalmente linguistica o scientifica, senza trovar difficoltà a conseguirla.
Per nostra disgrazia durante l’estate 1982 il Ministero della Pubblica Istruzione italiano riportò a memoria delle autorità preposte alla immatricolazione degli studenti nelle Università italiane la disposizione basata su due leggi, il R.D. n. 1592 del 31.8.1933 ed il R.D. n. 1269 del 4.6.1938, che al fine di evitare l’immatricolazione di studenti antifascisti nelle Università italiane prescrivevano e prescrivono che tutti gli studenti, di qualsiasi nazionalità, i cui genitori siano residenti stabili in Italia insieme a loro, debbano avere una Maturità italiana.
Da quel momento la nostra Scuola combatte per avere la equiparazione alla quale siamo convinti di aver diritto, in quanto che i licei italiani in Svizzera hanno accordi diretti con le Università ed i Politecnici svizzeri che li interessano. Per nostra sfortuna, mentre gli italiani in Svizzera possono trattare direttamente con le singole Università, noi dobbiamo passare attraverso i meandri della burocrazia statale e nessuno in Svizzera è pronto ad esercitare una pressione di tipo del «do ut des» o ritorsione che dir si voglia, che sarebbe il sistema più diretto per raggiungere il nostro fine. La solidarietà elvetica delle Università svizzere e dei Politecnici con le scuole svizzere all’estero lascia a desiderare.
La Scuola Svizzera di Roma, nata in un periodo di emergenza, cresciuta con molta fortuna in momenti difficili, mancò per alcuni mesi” (l’inizio della politica del risparmio) una occasione unica. La Francia voleva acquistare la nostra scuola per ingrandire il liceo Chateubriand, la scuola St., Georges voleva vendere un magnifico terreno di sette ettari alla Bufalotta con il permesso di costruirvi una scuola – fino a 21.000 metri cubi – per duecento milioni….. Era decisamente troppo bello, per essere vero. Dobbiamo tuttavia riconoscere di aver avuto e non solo materialmente la fortuna dalla nostra. Speriamo che così continui e che la colonia svizzera, gli amici italiani ed in modo particolare gli ex alunni, si facciano carico di seguirne la vita, di aiutarla a progredire così da garantirne le tradizioni di serietà e libertà.
Mi permetto di chiudere questo mio racconto, necessariamente stringato, richiamando il credo di coloro che hanno fondato la scuola e l’hanno guidata per oltre un trentennio. E’ l’introduzione al regolamento che la scuola si era data e che era in vigore fino all’anno scorso: «La Scuola Svizzera di Roma è un centro di educazione e di istruzione apolitico e aconfessionale. Essa si propone, avvalendosi della collaborazione dei genitori e degli organi delle confessioni religiose, di educare ed istruire i giovani per farne uomini e donne capaci e responsabili di fronte a Dio, alla Patria, alla collettività ed a se stessi».
Forse qualcuno troverà che questa enunciazione di intenti sia un po’ retorica: comunque esprime in modo chiaro ed inequivocabile ciò che i fondatori ed i continuatori della Scuola Svizzera di Roma si sono prefissi di fare.
Roma, il 30 aprile 1986
Alberto H. Wirth
Presidente onorario del Comitato direttivo