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La ribrica Antologia propone la seconda parte dell’intervento tenuto dal poeta e scrittore svizzero Carl Spitteler (Liestal, 24 aprile 1845 – Lucerna, 29 dicembre 1924) di fronte alla Nouvelle Société helvétique a Zurigo, il 14 dicembre 1914. Il tema della neutralità della Svizzera rimane sempre un tema di grande interesse e di grande attualità.

Il nostro punto di vista svizzero – seconda parte

Innanzitutto dobbiamo avere ben chiaro cosa vogliamo. Vogliamo o non vogliamo restare uno Stato svizzero che, nei confronti dell’estero, rappresenti un’unità politica? Se noi non vogliamo questo, se ognuno vuole lasciarsi spingere dove le sue simpatie personali lo trascinano e dove è attratto dall’esterno, allora non ho più niente da dire. Lasciamo che le cose vadano per proprio conto, vacillanti e tremebonde. Ma se abbiamo la ferma volontà di restare uno Stato svizzero, dobbiamo convincerci che i confini del nostro Paese presentano linee di demarcazione anche per i nostri sentimenti politici. Tutti coloro che vivono oltre i nostri confini sono nostri vicini e, fino a nuovo avviso, nostri cari vicini; tutti quelli che vivono al di qua sono più che vicini, sono fratelli. Ora, la differenza tra vicino e fratello è immensa. Anche il miglior vicino può, a seconda delle circostanze, spararci con palle di cannone, mentre nostro fratello, in battaglia, combatte al nostro fianco. Non possiamo quindi immaginare una differenza più grande.

A volte siamo esortati in modo amichevole, da buoni vicini, a non delimitare troppo i nostri confini politici con il sentimento. Se ascoltassimo queste esortazioni, ecco quale sarebbe il risultato: al posto delle frontiere esterne abolite, ne verrebbero create di nuove interne, che aprirebbero un abisso tra Svizzera occidentale, Svizzera meridionale e Svizzera orientale. Quindi penso che sia meglio per noi attenerci ai limiti che già abbiamo. Dobbiamo convincerci dell’idea che un fratello politico è più vicino a noi del miglior vicino e parente di sangue. Rafforzare questa convinzione è un nostro dovere patriottico. Il compito non è facile. Dobbiamo sentirci in comunione, pur rimanendo diversi. Non abbiamo lo stesso sangue, né la stessa lingua, non abbiamo una casa regnante per attenuare le divergenze, non abbiamo nemmeno, in senso stretto, una capitale. Tutte queste cose, non dobbiamo nascondercelo, costituiscono elementi di inferiorità politica. Abbiamo quindi bisogno di un simbolo comune per trionfare su questa inferiorità. Fortunatamente possediamo questo simbolo. Ho appena bisogno di nominarlo: lo stendardo federale. Si tratta quindi di stringerci sempre più attorno a questa bandiera e quindi di tenere a giusta distanza chi ha giurato fedeltà ad un’altra bandiera: in altre parole dobbiamo sentirci concentrici invece che eccentrici.

Certamente per noi neutrali la cosa migliore sarebbe osservare la stessa distanza verso tutti. E questa è infatti l’opinione di ogni cittadino svizzero. Ma è più facile a dirsi che a farsi. Involontariamente, andando in una direzione, ci avviciniamo al nostro vicino e, andando nell’altra, ci allontaniamo da lui più di quanto lo consenta la nostra neutralità.

Gli svizzeri occidentali sono tentati di propendere troppo per la Francia; da noi è il contrario. Così, per entrambe le parti, occorre ammonire, esortare e correggere i giudizi. Ma queste correzioni devono provenire da ciascuna delle parti, dall’interno. Stiamo attenti a non rimproverare i nostri fratelli per le loro colpe, perché non mancherebbero di ricambiare il favore con gli interessi. Questo è il motivo per cui dobbiamo, con fiducia, fare affidamento sui nostri confederati galli affinché possano sentire gli avvertimenti necessari nelle loro stesse file. Noi dobbiamo preoccuparci solo di ciò che ci riguarda.

La distanza è più difficile da osservare per gli svizzeri tedeschi che, in tutti i settori della cultura, sono in contatto più intimo con la Germania di quanto gli svizzeri francesi non lo siano con la Francia. Prendiamo ad esempio l’arte e la letteratura. Con una generosità davvero insolita, la Germania ha accolto i nostri scrittori, ha intrecciato per loro corone e, senza ombra di invidia o gelosia, ha posto molti di loro al di sopra dei suoi connazionali. Tra i due paesi si sono stabiliti molteplici legami commerciali, scambi intellettuali e amicizia e i buoni rapporti che ne sono scaturiti, durante un lungo periodo di pace, ci hanno fatto dimenticare completamente che tra la Germania e la Svizzera tedesca esiste però un confine.

Mi si consentirà di evocare le mie esperienze personali?

Credo che più d’uno dei miei lettori avrà provato i miei stessi sentimenti. C’è stato, nella mia vita, un periodo particolare; il periodo delle nobili follie della gioventù, dove ho guardato con nostalgia al di là del Reno, verso la Germania, sconosciuta, leggendaria, che mi appariva come un paese incantato, dove i sogni si realizzano, dove le figure della poesia, assumono forma concreta, passeggiano ai luminosi raggi del sole: nobili e candidi giovincelli romantici, vergini sognanti delle canzoni popolari, dove nella vita quotidiana si parla come nei libri, dove i monti e le valli, i boschi e le sorgenti ci salutano con l’aria di vecchi conoscenti. Erano, in verità, delle ingenue idee infantili. Ma oggi che da molto tempo non sono più ingenuo, né bambino, una ventata di simpatia e di approvazione mi arriva sempre dalla Germania, continua, inesauribile, come un effluvio primaverile. Dagli angoli più remoti gli amici sorgono a centinaia, a migliaia. Se per caso vado da loro non incontro che genti amabili, buone, benevole, premurose. Immediatamente capisco il loro modo di sentire e di esprimersi. Quando me ne vado, porto con me dei bei ricordi e ho il cuore colmo di calda riconoscenza.

I miei amici francesi invece, posso contarli sulle dita; la sola mano sinistra è sufficiente e non ho bisogno del pollice e del mignolo. Posso anche piegare le tre altre dita. In Francia viaggio solo, sconosciuto, circondato di stranieri distanti e sospettosi.

Ma allora?

In verità perché questo: “Ma allora?” E’ veramente necessario che io metta sullo stesso piano le mie idee politiche e i miei rapporti personali, d’amicizia? Posso, per motivi di ordine privato, correre gioioso, a braccia aperte, davanti una bandiera straniera, simbolo di una politica straniera? Oppure è possibile che qualcuno si senta offeso da quella che uno svizzero tedesco chiama bandiera straniera, la bandiera dell’impero tedesco? Allora – ditemi – perché le nostre truppe sono alla frontiera? Perché sono a tutte le frontiere, anche alla frontiera tedesca?

Ci sono, apparentemente, perché non ci è possibile fidarci, in tutte le circostanze, di nessuno dei nostri vicini… Perché non ci fidiamo dei nostri vicini? Perché anche i nostri vicini non guardano a questa mancanza di fiducia come a qualcosa di offensivo, ma ammettono che essa ha la sua ragione d’essere? Per il semplice motivo che le organizzazioni che chiamiamo Stati sono, come del resto essi stessi riconoscono, delle potenze che riposano non sul sentimento e sulla morale ma sulla forza. Non è un caso che gli Stati inseriscono volentieri animali da preda nei loro stemmi. Potremmo riassumere tutta la saggezza della storia universale in una sola massima: “Ogni Stato inghiotte quanto può”. Un punto, tutto qui. Con attacchi intermittenti di digestione difficile e debolezza chiamata pace. I capi di Stato agiscono come un tutore che, per eccesso di coscienza, credesse che gli è permesso fare tutto quello che può essere vantaggioso per il suo pupillo, senza escludere le scelleratezze. E più un uomo di Stato è geniale, meno ha scrupoli. Visto questo livello di consapevolezza, sarebbe sbagliato offendersi per tale mancanza di fiducia. (Fine seconda parte)

trad. MdP