La rubrica Antologia propone un viaggio letterario sulla Svizzera, la sua cultura, la sua natura e le sue istituzioni; una panoramica su come la Confederazione si racconta o è stata percepita e conosciuta al di fuori dei suoi confini e come lei stessa ha visto il mondo che la circondava. Di volta in volta un racconto, un estratto di un romanzo o di un saggio ci offriranno uno spaccato di queste visioni del mondo.
Questo racconto è tratto dal volume “Traditions et légendes de la Suisse romande”, una raccolta fiabe e leggende della Svizzera romanda edita da Daguet nel 1872 che raccoglie gli scritti di vari autori.
Il piccolo fabbro di Vallorbes
Tra gli operai delle fucine di Vallorbes c’era un ragazzo di 18 anni di nome Donat. Era bello, robusto, abile, audace fino all’inverosimile; ma era anche noto per essere vanaglorioso e presuntuoso, e incapace di mantenere un segreto. E’ passato così tanto tempo da quando è vissuto che la data è andata persa, ma non importa. Sopra Vallorbes, nelle scarpate del Giura, c’era una grande grotta in cui nessuno osava entrare, perché si diceva che fosse abitata dalle fate, che non permettevano a nessuno di entrare impunemente nella loro dimora sotterranea: una di loro si faceva vedere da lontano ogni domenica delle Palme, mentre conduceva a con un laccio una pecora bianca come la neve, se l’anno sarebbe stato abbondante, o una capra nera come un corvo, se l’anno sarebbe stato tormentato da cattivi raccolti e conseguente carestia. Un’altro, o forse la stessa, veniva d’estate a fare il bagno a mezzanotte nella bella vasca della sorgente dell’Orbe, sotto l’occhio vigile di due lupi che tenevano lontani i curiosi.
In inverno, quando gli operai se ne andavano, entravano nelle fucine per riscaldarsi, e un gallo vigile cantava un’ora prima per annunciare il ritorno dei fabbri, in modo che avessero il tempo di fuggire. Era opinione comune che queste donne fossero belle, alte e ben fatte, che il loro abbigliamento consistesse in una veste bianca che si trascinava a terra e nascondeva sempre i piedi, che i loro folti e lunghi capelli fluttuassero sopra i vestiti e servissero da mantello: le loro voci erano armoniose e dolci, secondo chi affermava di averle sentite cantare. Donat, dopo aver raccolto con cura tutte queste informazioni, decise di entrare nella grotta attraverso le siepi fitte che ne nascondevano l’ingresso. Una domenica mattina, senza dire a nessuno del suo progetto, si arrampicò sulle rocce, sfondò un muro di rovi e cespugli ed entrò nella grotta.
La trovò deserta e buia: la percorse in tutte le direzioni e stava per uscire, quando vide una fenditura nella roccia, abbastanza larga da poter essere attraversata con l’aiuto delle mani e dei piedi; la attraversò e raggiunse il secondo piano di questa singolare grotta. Lì trovò in un angolo un giaciglio di muschio e felci; ne approfittò per riposare e presto si addormentò. Quando si svegliò, la grotta era illuminata: accanto a lui vide una bella signora avvolta nei suoi lunghi capelli biondi e seguita da due simpatici cagnolini. La Fata, che lo aveva osservato con calma mentre dormiva, gli tese gentilmente la sua mano bianca e gli disse con una voce che gli arrivò dritta al cuore: “Donat! Mi piaci: vuoi restare con me? Ti renderò felice per un secolo: ti darò la conoscenza di metalli preziosi, di erbe che restituiscono la salute e di molti segreti misteriosi. Sarai accolto in compagnia delle mie sorelle nelle grotte di Montcherand, che presto condivideranno con me la cura di insegnarti, divertirti e compensarti per ciò che stai lasciando sulla terra.
Il giovane fabbro accetta la proposta con gioia e gratitudine: “ma”, dice la signora, “pongo una condizione necessaria al nostro patto, e cioè che mi vedrai solo quando avrò voglia di apparire ai tuoi occhi; se mi ritirerò in qualche altra parte della mia casa, non dovrai cercare di entrare, perché se lo facessi, ti abbandonerei per sempre e dovresti pentirti per il resto della tua vita. Ecco due borse; ogni giorno che sarò soddisfatta di te, metterò una moneta d’oro in una e una perla nell’altra”. Donat fu felice di questa promessa e per quindici giorni ricevette ogni sera la perla e la moneta d’oro. Quando si sentiva la campana di mezzogiorno della chiesa di Vallorbes, si apriva una volta chiusa e Donat vi pranzava con la bella signora che lo serviva, senza che nessun servitore comparisse mai. La tavola era abbondante e delicata: trote dell’Orbe, carne di cervo del Giura, selvaggina di Petra-Felix, panna della Dent de Vaulion, miele dell’Abbaye du Lac, vino di Arbois, frutta di montagna e di pianura; non mancava nulla. A volte, per divertirlo, la bella signora gli raccontava storie sotterranee. altre volte gli cantava ballate nel dialetto di Vallorbes e Romainmôtier; poi si ritirava da una porta posta in uno degli angoli della sala da pranzo: ma lui non doveva seguirla. A poco a poco, Donat trovò il tempo lungo, la solitudine in cui rimaneva isolato quando la Fata se ne andava divenne per lui noiosa.
La sua immaginazione lo convinse che quei sotterranei dovevano offrire scene più straordinarie di quelle a cui aveva assistito e la sua curiosità lo spinse ad intrufolarsi nei luoghi che gli erano stati vietati. Il sedicesimo giorno, dopo il pranzo in cui la Fata era stata più amichevole del solito, lei uscì, come era sua abitudine, entrò in una stanza vicina per fare il suo riposo pomeridiano e – per disegno o per caso – non chiuse completamente la porta. Quando Donat pensò che stesse dormendo, si avvicinò in punta di piedi alla porta semiaperta, la spinse delicatamente e vide la Fata sonnecchiare su un bellissimo letto di velluto rosso pavone. Il suo lungo vestito era un po’ sollevato ed egli notò, con sua grande sorpresa, che il suo piede non aveva il tallone, proprio come una zampa di oca; si stava ritirando molto delicatamente, quando uno dei levrieri nascosti sotto il letto della sua padrona cominciò ad abbaiare: la Fata si svegliò, vide Donat e gli gridò: “Fermati, disgraziato! Alla fine di questo primo mese di prova, ho avuto il desiderio di prenderti come marito e di condividere con te il mio potere, i miei segreti e le mie ricchezze. Vattene subito, torna alla fuliggine della tua fucina; poiché non mi riprendo ciò che ti ho dato, porta con te le tue due borse. Dimentica tutto ciò che hai visto e sentito nella mia caverna e se mai lo rivelerai a qualcuno, la tua punizione ti seguirà da presso”.
La dama scomparve e tutte le luci si spensero. Donat, rimasto solo nell’oscurità, muovendosi a tentoni finalmente trova la fessura attraverso la quale era salito dal primo al secondo piano.
Mentre passa sotto il portico scavato nella roccia, sente una voce che grida: “Donat! silenzio o punizione”.
Tornato alle fucine, dove nessuno sapeva che fine avesse fatto, fu interrogato sulla sua assenza; raccontò tutto quello che gli era successo, parlò dei tesori della Fata, della sua gentilezza nei suoi confronti, delle sue promesse di matrimonio, ma non senza prendersi gioco delle sue zampe d’oca e aggiungendo circostanze e dettagli che a causa della sua presunzione compromettevano l’esatta verità. I fabbri ridevano di lui, alcuni lo chiamavano visionario, altri lo chiamavano bugiardo, molti gli chiedevano le prove di ciò che affermava con tanta audacia… “Bene! Beh, ve ne darò qualcuna”, disse. Ma che stupore e che confusione: la borsa che doveva contenere le monete d’oro non aveva altro che foglie di sorbo e quella in cui aveva messo le perle conteneva solo bacche di ginepro. Così Donat, vergognandosi e disperandosi, decise di lasciare il paese e da allora non si sentì più parlare di lui nelle fucine di Vallorbes. Vedendo la sua casa scoperta e il segreto delle sue zampe d’oca svelato, la Fata andò a cercarsi un altro rifugio; ma in ricordo del suo soggiorno, il suo nome è rimasto e ancora oggi la grotta è chiamata Grotta delle Fate e i viaggiatori vi vengono condotti per ammirare la sua distesa oscura e la sua architettura informe; la maggior parte visita solo il piano terra, pochi hanno il coraggio di arrampicarsi attraverso la stretta fessura che conduce al piano superiore.