La rubrica Antologia vuole accompagnare nell’esplorazione di parte della produzione letteraria elvetica. Obiettivo di queste brevi incursioni è di offrire un esempio di come la Svizzera è stata vista e conosciuta al di fuori dei suoi confini e di come i suoi autori si sono confrontati con il mondo o l’hanno rappresentata. In questa occasione avremo un assaggio della lunga novella “Romeo und Julia auf dem Dorfe” tratta dalla raccolta “Die Leute von Seldwyla” (1856), “La Gente di Seldwyla”, dello scrittore e poeta svizzero Gottfried Keller (Zurigo, 19 luglio 1819 – Zurigo, 15 luglio 1890), massimo esponente della letteratura svizzera in lingua tedesca, la sua produzione letteraria si può inquadrare in quello che è definito realismo borghese.
Romeo e Giulietta di campagna – prima parte
Questo racconto sarebbe un’inutile imitazione se non si riferisse ad un fatto accaduto realmente, quasi a voler dimostrare quanto quelle fiabe, che sono diventate argomento delle grandi opere classiche, siano radicate nella vita umana. Queste favole non sono molte ma si ripresentano sempre in forma originale e nuova che invogliano a dar loro forma scritta.
In riva al bel fiume che scorre a mezz’ora di strada da Seldwyla sorge una collina ben coltivata, che sfuma poi in una pianura fertile. Lontano, ai suoi piedi si stende un villaggio con molte grandi fattorie. E, alcuni anni fa, sul declivio si stendevano tre magnifici lunghi campi, uno accanto all’altro come tre lunghi nastri. Era un mattina di settembre e due contadini aravano i due campi esterni; il campo di mezzo appariva incolto da molti anni, coperto di pietre ed erbacce e un mondo di bestiole alate vi ronzava in piena libertà, i due agricoltori che aravano erano uomini robusti e magri sulla quarantina e si capiva subito che erano agricoltori sicuri di sé e benestanti. Avevano calzoni corti di tela grezza dove ogni piega sembrava scolpita nella pietra. Quando, incontrando una resistenza, stringevano con più forza la stiva dell’aratro, le maniche dalla camicia tremavano per la scossa mentre la facce rasate guardavano con attenzione ma con occhi abbacinati dalla gran luce del sole, misurando il solco (…). Lentamente e con una certa grazia naturale camminavano senza dire una parola se non per dare un ordine al servo che guidava i grandi cavalli. Visti da una certa distanza apparivano perfettamente uguali: erano i rappresentanti della gente del paese e non si sarebbero potuti distinguere se non per il fatto che il primo portava la nappa del cappello bianco sulla fronte, mentre l’altro la lasciava cadere sulla nuca. Ma anche in questo si davano il cambio perché aravano in direzioni opposte e quando si incontravano alla sommità della collina, il berretto di quello che camminava contro il vento di levante si rigirava all’indietro mentre quello dell’altro, che aveva il vento alle spalle, si girava in avanti. C’era anche un momento intermedio in cui i berretti candidi oscillavano diritti nel vento dardeggiando come fiammelle verso il cielo. Così aravano tranquilli entrambi ed era bello vederli nella quiete della luce di settembre (…)
Se trovavano un sasso nei solchi lo lanciavano nel campo di mezzo (…).
Era trascorsa così gran parte della mattinata quando dal paese arrivò un bel carretto (…). Era un barroccetto da bambini dipinto di verde in cui i piccoli figli dei due aratori, un maschietto ed una piccola bimbetta, portavano insieme la colazione ai genitori. Ciascuno di loro aveva un pane avvolto in un tovagliolo, un boccale di vino e il companatico che la contadina mandava al proprio uomo; vi erano anche mele e pere dalle forme bizzarre, con i segni di morsi, che i bambini avevano raccolto strada facendo, una bambola tutta nuda, con una gamba sola e la faccia impiastricciata sedeva come una signorina tra i pani e si faceva scarrozzare comodamente. Dopo vari intoppi e qualche sosta il carretto si fermò sull’altura all’ombra di un ciuffo di giovani tigli (…). I due conducenti erano un ragazzino di sette anni ed una bambina di cinque, avevano gli occhi bellissimi, la bimba aveva la carnagione scura e i capelli bruni e riccioluti che le davano un’aria schietta e focosa. Arrivati alla sommità del campo i due contadini diedero ai cavalli una bracciata di trifoglio e si salutarono da buoni vicini, avviandosi alla colazione in comune, poiché quel giorno non si erano ancora rivolti la parola.
Mentre gli uomini mangiavano condividendo il loro pasto con i bambini che non si muovevano da lì fino a che c’era da mangiare e da bere, i loro sguardi vagavano all’intorno e iniziarono a parlare (…) Marti, uno dei due contadini disse:” Ieri è stato da me uno per questo campo incolto”.
“Quello del consiglio distrettuale? E’ venuto anche da me!” disse Manz.
“Ah sì? E avrà detto anche a te di lavorare il campo e pagare l’affitto ai proprietari, vero?” .
“Sì, fino a quando il consiglio non avrà deciso a chi appartiene il campo e che cosa se ne debba fare. Io mi sono rifiutato di lavorare questo terreno non dissodato per altri e ho suggerito che vendessero l’appezzamento e conservassero il denaro fino a quando non si troverà il proprietario, cosa che probabilmente non avverrà mai (…)”.
“Lo penso anche io e ho dato al galoppino una risposta simile”.
Tacquero e poi Manz disse:” E’ un peccato che questa terra fertile sia abbandonata, sono venti anni che nessuno se ne cura; nel villaggio non c’è nessuno che possa vantare dei diritti e nessuno sa dove siano andati a finire i figli del trombettiere andato in rovina.”
“E’ una faccenda complicata! Quando vedo quel triste suonatore di violino che a volte sta con i senza patria, a volte suona nei balli campestri, scommetterei che il nipote del trombettiere e che non sa di essere il proprietario del campo. Ma cosa se ne farebbe? Un mese di ubriacatura continua e poi tornerebbe alla solita vita! E poi non si può dire niente visto che non si può sapere nulla con certezza”.
“Si solleverebbe un bel vespaio”, rispose Manz,” facciamo già fatica a negargli il diritto al domicilio nel nostro comune. Se i suoi genitori hanno scelto di unirsi ai sena patria ci rimanga anche lui e strimpelli per la gioia della marmaglia. Come si fa a sapere se è il nipote del trombettiere? Per conto mio, anche se nella faccia scura del suonatore di violino mi ricorda quella del suo antenato, dico che mi farebbe piacere vedere un certificato di battesimo per poterne riconoscere la parentela”.
“Si capisce!” disse Marti “anche se lui dice che non è colpa sua se non è stato battezzato. Ma dobbiamo fare un fonte battesimale portatile per andare nei boschi? No, è fisso in chiesa, portatile è la barella dei morti appesa accanto alla porta. Siamo già in troppi in paese, presto serviranno due maestri!”
Così fini il pasto e il dialogo dei due contadini che si alzarono per tornare al lavoro. I bambini, invece, che avevano deciso di tornare a casa con i loro genitori, tirarono il barroccetto sotto i tigli e fecero una scorribanda nel campo incolto che con le erbacce, i cespugli e i mucchi di pietre era un mondo insolito e deserto. Dopo aver girellato per un po’ per il campo solitario tenendosi per mano ed essersi divertiti a passare la mani unite sopra i cardi, si sedettero sotto uno di essi e la bambina cominciò a vestire la sua bambola con una gonna di foglie di piantaggine e un rosolaccio la fu messo come cuffia, legata con un filo d’erba, facendole prendere l’aspetto di una maga, in particolare con l’aggiunta di una collana e di una cintura composta di piccole bacche rosse, poi la misero su un cardo e l’ammirarono fino a che il ragazzo la buttò giù con una sassata. Gli abiti le si disfecero, la bambina la svestì per rifargliene di nuovi; ma quando la bambola fu nuda, con la sola cuffia in testa, il ragazzo, monello, gliela strappò di mano e la lanciò in alto. La bambina, gridando, tentò di riprendere la bambola ma il ragazzo fu più veloce e la lanciò di nuovo, provocando la bambina che cercava inutilmente di riprenderla.
Nel tira e molla la bambola si ferì al ginocchio della sua unica gamba e dallo strappo cominciò ad uscire la crusca che la imbottiva. Non appena quel giovane crudele vide il buco, zitto zitto, cominciò ad allargarlo con le unghie per scoprire da dove proveniva la crusca. Il silenzio insospettì la bambina che, avvicinandosi, si accorse della malefatta. “Guarda!” gridò lui agitandole la gamba davanti al naso e facendole volare la crusca davanti la faccia e, mentre lei stava per prendere la bambola, (…) lui scappò e non si fermò fino a quando la gamba fu del tutto vuota e floscia. Poi buttò via il giocattolo danneggiato e quando la bimba si lanciò sulla bambola danneggiata avvolgendola con il grembiulino, assunse un’aria spavalda e indifferente. La bimba guardò di nuovo la bambola e quando vide la gamba riprese a singhiozzare perché questa penzolava dal corpo come la coda di una salamandra. Poiché il pianto non accennava a smettere il malandrino cominciò a provare rimorso e si avvicinò preoccupato; quando la bambina se ne accorse smise di piangere e cominciò a picchiarlo ripetutamente con la bambola mentre lui fingeva di provare dolore e gridava con tanta naturalezza che lei fu molto contenta e continuò insieme a lui ad accanirsi sulla bambola. Fecero un buco dopo l’altro nel corpo martoriato della bambola facendone uscire tutta la crusca che raccolsero poi su un sasso piatto ed esaminarono minuziosamente. Del corpo della bambola non rimaneva nulla di solido, solo la testa, che attrasse la fantasia dei ragazzi che la staccarono dal cadavere floscio e ne studiarono la cavità interna. Il loro primo pensiero fu di riempire quell’incavo misterioso con la crusca e fecero a gara con le loro piccole dita a riempire quella testa che, per la prima volta nella sua vita, si ritrovò a non essere più vuota.
(…) Il ragazzo afferrò un moscone azzurro ed ordinò alla bambina di svuotare la testa poi vi infilò l’insetto tappando l’apertura con dell’erba. Portarono la testa all’orecchio per ascoltare il rumore che proveniva dall’interno e poi la posarono su un sasso: la testa ronzante, coperta con il fiore del rosolaccio, somigliava ad una pizia ed i bimbi ascoltarono silenziosi i suoi vaticini tenendosi abbracciati. (…) Scavarono un buco e vi posero la testa, senza aver interpellato il moscone imprigionato al suo interno, sulla tomba posero un monumento di sassi. Poi ebbero un brivido di paura perché avevano sepolto un essere vivente e un oggetto creato dall’uomo e fuggirono dal quel luogo infausto. (…)
I loro padri avevano finito di arare i loro campi. Giunti alla fine dell’ultimo solco, il servo di uno dei due si fermò ma il padrone gridò di proseguire: “Ma abbiamo finito!” disse il servo, “Stai zitto e obbedisci!” rispose il padrone e rigato l’aratro, scavarono un solco nel campo di mezzo (…). Risalirono rapidamente le collina e quando giunsero in cima e il vento buttava indietro la nappa del berretto, ecco arrivare dall’altro lato il compagno, la nappa sulla fronte, a tracciare anche lui un profondo solco nel campo di mezzo. Ognuno dei due vide quello che l’altro stava facendo ma finsero di non vedere (…).
Fine prima parte