Condividi su:

Dal 1 agosto il Prof. Michele Luminati ha lasciato la gestione dell’Istituto Svizzero per tornare in pieno nella sua vita accademica presso l’Università di Lucerna. Prende il suo posto la signora Joëlle Comé.
istituto-svizzero-roma1
Volentieri pubblichiamo il discorso tenuto all’Istituto Svizzero di Roma il 24 giugno 2016, all’evento di chiusura del programma di residenza Studio Roma e di commiato dall’incarico di direttore del prof. Michele Luminati.

“Siamo giunti alla fine della terza edizione del programma di residenza Studio Roma, ma anche alla chiusura della mia gestione dell’Istituto Svizzero di Roma. Permettetemi dunque di presentarvi un breve, provvisorio bilancio.

I bilanci si possono fare in vari modi: possono essere quantitativi ed esporre cifre, come amano fare le burocrazie. E allora potremmo dire che in questi anni abbiamo quasi raddoppiato il nostro pubblico a Roma, che abbiamo anche aumentato considerevolmente il numero degli eventi, come pure la nostra presenza e le nostre collaborazioni dentro la città di Roma e anche in altri luoghi d’Italia, ma anche la nostra presenza nei social media. Potremmo ancora dire che con il nuovo programma di residenza Studio Roma abbiamo praticamente raddoppiato il numero delle candidature dei borsisti svizzeri. Ma le statistiche, si sa, possono essere ingannevoli e si prestano alle interpretazioni più disparate.

Preferisco dunque proporvi alcune riflessioni ‘qualitative’. All’inizio del mio mandato era stata posta dal Consiglio di fondazione l’esigenza di ripensare il ruolo dell’Istituto Svizzero nel contesto di una riflessione generale sul ruolo delle accademie straniere oggi a Roma. In particolare, per quanto riguarda le residenze, ci si doveva confrontare da un lato con l’accresciuta mobilità e con i numerosi programmi di scambio e di studio offerti ai giovani artisti e ricercatori, dall’altro con la perdita d’importanza di Roma come capitale culturale e scientifica nel contesto europeo. Inoltre si voleva proseguire il percorso già iniziato con la precedente direzione verso un’istituzione più aperta nei confronti della città e con una programmazione meno casuale.

La nostra risposta è stata Studio Roma. E quando dico “nostra” intendo sottolineare che Studio Roma, come tutta la programmazione di questi anni, è il frutto di un lavoro collegiale di tutto il team dell’Istituto Svizzero, che ringrazio per l’entusiasmo e le energie investite. In particolare voglio ringraziare il responsabile del programma artistico Salvatore Lacagnina e i due responsabili del programma scientifico che si sono succeduti in questi anni: Henri de Riedmatten e Philippe Sormani.

Studio Roma, dicevo, è stata la nostra risposta a queste sfide. Una risposta radicale che punta sulla transdisciplinarietà e sull’approccio tematico, identificando temi ritenuti rilevanti in senso trasversale e non soltanto per una singola disciplina o per una particolare forma artistica, e dunque temi capaci di attirare l’interesse di giovani artisti e ricercatori che altrimenti non sarebbero mai venuti a Roma.

Sottolineo la diversità di Studio Roma rispetto all’accademia e al mondo artistico. Il fatto di non essere e di non voler essere un luogo di classica formazione e ricerca ha permesso di muoverci in campi diversi e di confrontarci in un modo inedito con la città. L’Istituto Svizzero ha cercato e costruito un rapporto con il territorio, instaurando forme di dialogo con la società civile e il mondo della cultura e della scienza: in questo modo abbiamo stabilito una riconoscibilità istituzionale ampia, ben oltre le logiche della mera rappresentanza nazionale, dell’istituto-vetrina, chiuso su se stesso.

Realizzare un laboratorio istituzionale, attivare una sperimentazione: questa è stata l’idea con cui abbiamo voluto rompere vecchi schemi e sconfinare in vari campi del sapere, l’idea che ci ha permesso di testare formati e modi diversi di lavorare insieme. Per fare questo ci siamo presi il lusso di non produrre qualcosa di definito, creando un tempo e uno spazio dove poter sperimentare, provare, verificare e anche… fallire. Si tratta di una logica diversa rispetto a quella imperante del “publish or perish”, che ormai si declina anche nel mondo dell’arte.

Abbiamo realizzato progetti che non sarebbero stati possibili all’interno del mondo accademico e della formazione artistica. Abbiamo trasformato i settori e i programmi di arte e scienza, ideando un modello che permettesse davvero a arte e scienza di incontrarsi e scontrarsi, costruendo un originale modello di lavoro, senza le strumentalizzazioni reciproche e le banalizzazioni che caratterizzano spesso i tentativi di mettere insieme questi due ambiti.

Voglio ricordare che il ciclo di incontri Istituzione e differenza. Attualità di Ferdinand de Saussure, realizzato nel 2013, in occasione del centenario della nascita del linguista ginevrino, è stato il punto di partenza per lo sviluppo di Studio Roma. Oltre a Istituzione e Differenza anche il Congresso dei Disegnatori, nato dalla stretta collaborazione con l’artista Paweł Althamer e la 7. Berlin Biennale, realizzato a Roma nel 2012, 2013 e poi a Torino in collaborazione con la Pinacoteca Agnelli nel 2015, ha giocato un ruolo centrale nell’evoluzione di Studio Roma. Un luogo nel quale gli artisti e il pubblico dialogano tra loro, utilizzando il linguaggio delle immagini invece delle parole, dove ognuno è invitato a partecipare alla discussione attraverso la pratica del disegno. Partendo da queste esperienze abbiamo cercato di sviluppare un programma su linee tematiche, attento a questioni e problemi attuali, capace di attraversare la città di Roma ed entrare in contatto diretto con le voci più vivaci e innovative del territorio.

La pratica è ciò che contraddistingue il nostro approccio, a fronte dei troppi discorsi teorici e dell’insopportabile retorica delle “sinergie tra arte e scienza”. Non a caso, la prima ricerca intrapresa da Studio Roma si è concentrata sul tema delle regole e delle pratiche: l’intento era di non fermarsi a semplici dichiarazioni di principio, ma di chiedere, sotto il tetto transdisciplinare di cui tutti smaniano e parlano, che cosa voglia dire praticare certi passaggi e confrontarsi tra varie discipline.

Indubbiamente quando si passa dal declamare i vantaggi della transdisciplinarietà al praticarla, si incontrano difficoltà e resistenze. In un mondo scientifico, ma anche artistico, fatto di specialismi, di scolarizzazione, di logiche di mercato, di ranking, di valutazioni quantitative, di output veloci, non c’è da meravigliarsi se l’invito ad abbandonare (anche per poco) il proprio orticello spesso non venga accolto. Che si tratti di un problema irrisolto ce lo ricorda oltretutto il direttore della Oxford Martin School, Ian Goldin, che recentemente ha sottolineato che per giovani ricercatori partecipare a dei progetti di ricerca multidisciplinari può essere un suicidio per la propria carriera in quanto, nonostante la transdisciplinarietà sia diventata una parola d’ordine, lo specialismo continua a essere dominante.

Proprio per questo c’è un’estrema necessità di luoghi, di spazi che non debbano rispondere a tutte queste logiche, ma che permettano una sperimentazione altra. Ha ragione Stefano Velotti, quando oggi pomeriggio alla stimolante tavola rotonda al Bar Caffè e Musica sull’Aventino ha sottolineato che si tratta di luoghi minoritari, ma non per questo meno necessari.

Indubbiamente è più facile riprodurre formati e contenuti praticati all’interno delle università e delle istituzioni di formazione artistica, proporsi come una filiale che offre una bella cornice per fare ciò che si fa comunque in altri luoghi. Viene però da chiedersi, a questo punto, quale sia ancora l’utilità di una tale istituzione, se non quella di una “volkstümliche Anbiederung”, di “accattivarsi le simpatie popolari” (o forse meglio populiste), che proprio l’altro giorno ha fortemente criticato la curatrice svizzera di fama internazionale Bice Curiger.

Con Studio Roma abbiamo reso pubblico il processo stesso del fare ricerca. Ricercare non è qualcosa i cui risultati si condividono e socializzano alla fine. Con Studio Roma non abbiamo voluto raggiungere un risultato immediato, ma offrire un processo fatto di lavoro sui materiali e di confronto che riguarda i suoi partecipanti. Il carattere pubblico delle attività ha portato a un’apertura che ha messo in questione lo specialismo e fatto cadere gli steccati che delimitano i diversi orticelli che ognuno si costruisce per stare a proprio agio. E dunque costringere lo specialista al confronto con altre posizioni e con domande inaspettate, mettersi in questione reciprocamente praticando un dialogo che può essere anche conflittuale e non condurre a una soluzione.

Inoltre, organizzare le attività di Studio Roma in diversi luoghi della città di Roma ci ha permesso di interagire con una dimensione di pubblico diversa rispetto a chi frequentava abitualmente Villa Maraini. Questo ci ha portato a confrontarci con attori nuovi e con realtà territoriali diverse. Studio Roma ha messo alla prova la nostra capacità di attrazione e di relazione tanto nella città di Roma quanto a livello europeo e del Mediterraneo. Non ci siamo voluti limitare al binomio Italia-Svizzera, ma abbiamo ampliato il nostro raggio di azione in una dimensione europea, dove le questioni e l’approccio toccavano urgenze non legate esclusivamente a questi due paesi.

Frequentare Studio Roma significava dunque, per chi lo voleva, entrare in contatto con l’Europa.

Per poter realizzare un laboratorio del genere, è stato necessario lasciare il tempo e lo spazio sufficiente affinché la sperimentazione potesse andare avanti. È stato necessario assumersi dei rischi di fronte ad aspettative e pretese interne e esterne. È stato necessario creare uno scudo per rendere possibile la spontaneità, l’improvvisazione e l’innovazione. In un certo senso abbiamo voluto garantire qualcosa di impossibile, o di paradossale: mettere in gioco la valutazione in un quadro istituzionale dove il valutare è continuamente richiesto.

Siamo dei terremotati: l’avevamo detto e scritto all’inizio di Studio Roma nel 2013. Le nostre società hanno visto sgretolarsi le loro fondamenta. Strutture considerate inamovibili sono crollate.

Valori che erano ritenuti intoccabili si sono sfaldati. I più recenti avvenimenti politici (Brexit) non fanno che ricordarcelo nuovamente. Questo è il contesto all’interno del quale anche un’istituzione culturale e scientifica come la nostra deve muoversi”.