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Volentieri riportiamo l’intervento di Fabrizio Carboni, direttore regionale del CICR per il Vicino e il Medio Oriente, traduzione non ufficiale di M.Grazia Baccolo diffuso da Caffé Dunant nr. 601 del 15 luglio 2021.

I siriani hanno subito perdite incommensurabili negli ultimi dieci anni. Molti di voi sono stati testimoni della sofferenza che è stata loro inflitta: la devastazione delle città, il crollo dei servizi più essenziali alla vita.

E in questa immensa tragedia, il nord-est resta teatro di una delle crisi più complesse che esistano oggi e che riguardano la protezione dei bambini.
Lì, decine di migliaia di bambini sono bloccati nei campi, in condizioni spaventose che nessuno di loro dovrebbe vivere. E centinaia di bambini – ragazzi, alcuni di appena 12 anni – sono detenuti in carceri per adulti, dove certamente non possono avere il loro spazio.

Questi bambini sono siriani, iracheni e decine di altre nazionalità. Alcuni sono accompagnati da membri della loro famiglia, altri sono orfani o separati dai loro parenti. Tutti devono essere trattati prima di tutto e soprattutto come vittime.

Il mio lavoro al CICR mi ha portato in zone di conflitto in tutto il mondo, ma devo ammettere che ogni visita ad Al Hol, questo campo pieno di bambini, è sempre un’esperienza travolgente.
Mi sono recato là l’ultima volta a marzo; era la mia quarta visita in quattro anni, ho constatato che la situazione era ulteriormente peggiorata.
Per darvi un’idea dell’entità del problema che stiamo affrontando: il campo di Al Hol esiste dagli anni ’90 e ha ospitato circa 10.000 iracheni dopo la guerra del Golfo. Alcuni sono ancora lì.
Attualmente, ad Al Hol sono radunate circa 60.000 persone di oltre 60 nazionalità. La maggior parte di loro proviene dall’Iraq e dalla Siria. Il 90% di loro sono donne e bambini. Si stima che circa 40.000 bambini crescano in questa terribile povertà, spesso esposti a tutti i tipi di pericoli.

La mia prima visita risale al 2019. A quel tempo, le persone di Baghouz arrivavano in massa, erano in fuga dai pesanti combattimenti.

Le loro sofferenze erano spaventose. Ricordo migliaia di donne e bambini coperti di polvere, affamati, tremanti dal freddo, sotto shock. Molti avevano percorso centinaia di chilometri.
Alcuni avevano ferite aperte, causate da armi esplosive; c’erano molti amputati e persone con ferite che, era evidente, erano state lasciate non curate per mesi.
Durante queste prime settimane, quasi la metà dei pazienti trattati nel nostro ospedale da campo erano bambini. Molti purtroppo non sono sopravvissuti a seguito delle brutte ferite, subito dopo essere arrivati al campo.

Tre anni dopo, la maggior parte di coloro che sono sopravvissuti sono ancora qui.

Il campo di Al Hol è composto da tende a perdita d’occhio, montate nel deserto. La disperazione lega queste migliaia di persone abbandonate là nell’incertezza, senza poter immaginare un futuro.

Le necessità mediche restano gigantesche come le cure materne, la pediatria, la chirurgia, i bisogni psicologici, la riabilitazione fisica. L’anno scorso abbiamo visto un aumento del numero di morti tra i bambini; morti spesso evitabili.

Le condizioni nel campo sono molto dure per tutti, per i bambini e per gli adulti. Le famiglie sono state separate durante i trasferimenti in altri campi o luoghi di detenzione; i bambini sono stati separati dalle loro madri.

I ragazzi, in particolare, vivono in uno stato di costante sfiducia e paura. Non appena raggiungono una certa età, molti vengono separati dalle loro famiglie e trasferiti in luoghi di detenzione per adulti, dve non possono avere il loro spazio.

I bambini detenuti dovrebbero essere ricongiunti con le loro famiglie nei campi, rimpatriati con loro, o accolti in progetti dedicati a loro. Coloro che sono gravemente malati dovrebbero essere rimpatriati in via prioritaria.

Ovviamente non va trascurata la situazione di migliaia di adulti. Nessuno deve essere lasciato senza la possibità di ottenere i diritti; tutti devono poter beneficiare delle garanzie di un processo equo ed essere trattati con umanità.
Tre anni dopo la mia prima visita ad Al Hol, una cosa mi è più chiara che mai: non è impossibile agire. Il compito è colossale, certo, complesso, ma ciò non può in alcun modo giustificare l’immobilismo.

Gli Stati non devono affrontarlo da soli. In effetti, non c’è altra soluzione a lungo termine che la cooperazione internazionale e l’azione collettiva.
Possono beneficiare delle competenze e dei consigli, anche da parte del CICR. Il diritto internazionale fornisce un quadro che può aiutare a risolvere i problemi. Gli stati possono imparare gli uni dagli altri. Essi possono e devono condividere le buone pratiche.

Va detto che ci sono esempi positivi di rimpatrio. Ci sono degli Stati che hanno rimpatriato madri e figli, che hanno assicurato la convivenza delle famiglie come prescritto dal diritto internazionale. Ci sono Stati che si sforzano di perseguire e/o reintegrare i propri cittadini e di garantire il seguito del loro caso con umanità.

È possibile agire ora per evitare di aggiungere ulteriore sofferenza al disagio di queste persone. La possibilità esiste ma il tempo stringe.

È ora che gli Stati agiscano con umanità e responsabilità per salvare i loro cittadini dalla miseria in cui sono ridotti. I bisogni sono immensi e l’immobilismo costa caro a tutti.

Fonte: https://www.icrc.org/fr/document/intervention-de-fabrizio-carboni-directeur-regional-du-cicr-pour-le-proche-et-le-moyen