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La rubrica Antologia propone un’esplorazione letteraria della Svizzera e di alcuni suoi autori per avere un esempio di come la Confederazione è stata conosciuta e di come i suoi letterati l’hanno rappresentata e si sono confrontati con il resto del mondo. In queste pagine percorriamo alcuni momenti del libro di “Voyage pittoresque en Suisse et en Italie” di Jacques Cambry, pubblicato a Parigi nel 1801, anno IX del calendario repubblicano.

Viaggio pittoresco in Svizzera e in Italia

14 luglio 1788

Consegnai le mie lettere; rimasi affascinato dall’affabilità dei ginevrini; accettai le offerte di aiuto che mi sono state gentilmente fatte. Andai a trovare il signor Bourrit, che accese in me il desiderio di esplorare i ghiacciai e i siti sublimi della Savoia.

Ginevra si trova su due colline separate dal Rodano; sono collegate tra loro da ponti di legno, sotto i quali scorrono impetuosamente le acque più limpide, a volte blu come il cielo in una bella notte a volte ripetendo quel tono di verde opale che tinge l’orizzonte nei giorni roventi di la canicola.

Graziosi bastioni, mura di cinta, fossati abbastanza ampi e basse rampe di erba sembrano circondare Ginevra più per abbellirla che per difenderla; tuttavia la proteggerebbero da un attacco a sorpresa: è l’unica precauzione che può prendere questa saggia e piccola repubblica, circondata da potenti nemici, che dovrebbero rispettare la sua indipendenza e permetterle il pacifico godimento di una lingua di terra di cui ha fatto un delizioso giardino.

Le case di questa città non hanno architettura; sono costruite con una meschina semplicità, i piani sono bassi, le stanze strette, le finestre piccole ed vi si respira con difficoltà. La saggezza prescrive la moderazione, ma vieta una sproporzione di abitazioni che è dannosa per la salute, allo sviluppo dei bambini.

L’unico lato che si affaccia su Carouges ha alcuni grandi e solidi edifici: ce ne sono alcuni in la rue des Chanoines, nella Grande rue, che sfuggono a questa critica; ma, in generale, i ginevrini sono mal alloggiati: è una via di mezzo tra il fasto dei palazzi e gli inconvenienti degli appartamenti troppo angusti.

Ginevra si trova a sud del lago; domina da un lato le pianure della Savoia, che sono racchiuse dalla Salève, dalla Waches e dal Giura: è un bacino delizioso e ben coltivato, popolato di piccole case, gestito dalla città di Carouges, abbellito dall’incontro dell’Arve e del Rodano, e dai bei colori vividi dei campi, del cielo e delle montagne. Le sponde che si estendono ad est e ovest del lago, sono costituite da graziose colline, con semplici, piccoli ma deliziosi giardini; con un felice miscuglio di frutteti, di campi e di orti sempre impreziositi dalle acque del lago e dagli aspetti più imponenti delle montagne della Savoia. Il lato occidentale offre uno spettacolo gigantesco, è il Salève, il Môle e il Monte Bianco che svelano agli occhi il più maestoso anfiteatro, coperto di neve perenne, e di nuvole colorate che i venti portano con sé, a volte minacciose come tempeste, a volte calme come una bella giornata.

Ho dato solo un’occhiata superficiale a questi panorami sublimi; volevo farmi un’idea generale della posizione della città e dei suoi dintorni, ripromettendomi che un giorno avrei studiato in dettaglio il suo governo, la sua morale e il suo genio. Ho visitato l’antica cattedrale nota come San Pietro; l’architettura è gotica, ma il portale moderno è di discreto gusto: è formato da sei colonne di marmo di una proporzione piuttosto bella di ordine corinzio. Non mi piace l’unione di questi due generi; riunisce forme incoerenti. Il portico annuncia il Pantheon, mentre l’interno ricorda Notre-Dame.

Questo tempio era un tempo dedicato al Sole, come tutti i luoghi elevati. Mi è stato assicurato che una testa inserita nel muro a est era l’immagine di questa divinità: è stata a lungo conservata nel santuario; assomiglia all’Apollo di Polignac che trova inciso presso tutti gli antiquari.

Sono andato alle torri di Saint-Pierre per godere della vista più piacevole del lago e dei dintorni che si possa avere; e soddisfatto di questa mattinata, sono andato all’Ecu de Genève, dove dovevo cenare. Vale la pena di notare che in tutta la Svizzera si mangia alla tavola comune e che non ci si deve mai lamentare degli uomini che si incontrano lì, c’è un certo grado di riserbo e di decenza che permette anche alla madre più severa di portarci la figlia.

Regnava una certa effervescenza nei movimenti, nel linguaggio; una bizzarria, una libertà nei costumi dei convitati, che mi ha colpito: erano tutti arrivati da Chamonix, dal Saint-Bernard, dal lago di Bienne, dal GrindeJwald; avevano tutti avventure da raccontare, meraviglie da descrivere; un uomo aveva il braccio fasciato, un altro si era slogato il piede; erano stati tutti esposti a pericoli sulla Mer de glace, al Bossons, al Buet, al Col de Balme. Non era questo un raduno di esseri impassibili e ben incipriati, di macchine per gli inchini, di gorgheggi di arie d’opera, questo comune consenso a tutto quello che si diceva, che avevo appena lasciato a Parigi. Ognuno aveva il proprio carattere, il proprio volto, i propri abiti; ognuno osava esprimere la propria opinione, contraddire, pensare per sé. Questo nuovo quadro non era forse migliore dell’altro, ma mi piaceva per il suo contrasto con quello che stavo lasciando, per la sua novità, per la sua singolarità.

Stavamo per sederci, quando entrarono due belle donne; le accompagnavano un amico, un uomo di cinquanta anni, e un marito più giovane: sono stato messo per caso tra queste signore. Queste sono due sorelle: la più giovane ha il viso più bello, i lineamenti più regolari; l’altra ha il viso più dolce, il più tenero, e occhi che sarebbero quelli della voluttà.

La conversazione è divenne generale; un turco-greco, un uomo pieno di spirito, ha fatto le spese: forte della sua patria, dei suoi poeti che conosceva a memoria, ha preso tutta l’attenzione; ha catturato tutti gli sguardi, ha incantato tutte le orecchie: modesto all’inizio, ha concluso tagliando con leggerezza sui nostri autori, i nostri costumi, il nostro clima. Decisi di vendicare la mia patria: con un abuso di citazioni, paradossi e verità, cercai di dimostrargli che ciò che chiamiamo Greci, attraversavano solo il Paese che impropriamente veniva chiamato Grecia; che Atene, lungi dall’essere la madre delle arti, le aveva ricevute dai suoi vicini, che Omero non era mai esistito.

All’inizio della commedia ci separammo.

Il teatro mi è sembrato piccolo, piuttosto grazioso: gli attori mediocri, le ballerine detestabili. Ho avuto per risorsa la conversazione di un revisore dei conti oberato dagli affari della città, avendo fatto controllare, la mattina, dei pesi falsi, e giudicato la sera otto ladri di pesce. Mi disse che un solo reggimento presidiava la città di Ginevra; che il colonnello aveva avuto duecentodieci voti per la sua elezione, anche se il consiglio aveva solo duecento membri che le leggi suntuarie di Ginevra proibiscono diamanti, dorature e merletti; che le carrozze possono andare solo a un breve trotto in città; che gli inglesi erano stati giudicati, per aver mancato a quest’ultima usanza; che, per vendicarsi, avevano insultato la moglie del sindaco e il sindacao stesso. “siamo sfortunati”, ha aggiunto, “gli uomini d’Inghilterra sono lodati ovunque e tutto ciò che vediamo di questo Paese sono i suoi fantini”.

trad. MdP