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L’esperienza della pandemia ha cambiato la nostra percezione del mondo. Ripensando alle settimane del lockdown qui a Roma, ricordo in particolare la trasformazione dello spazio sonoro. La città divenne silente e, nel silenzio, si iniziarono a sentire altre cose.

Il silenzio, il rumore e l’ascolto hanno sempre una dimensione sociale e finanche politica. I suoni, sì, i rumori che ci circondano creano sempre un certo spazio sociale. Azzittire qualcuno è un atto violento; al contempo, restare in silenzio può essere un gesto di resistenza, e l’ascolto può essere rivendicato come un’azione politica attiva che dà spazio a voci inascoltate, trascurate. In italiano, il verbo ‘sentire’ si riferisce tanto ai suoni quanto alle emozioni.

La mostra collettiva “Do you hear us?” all’Istituto Svizzero di Roma dove le opere artistiche, alcune create appositamente per la mostra altre già esistenti, esplorano un tema multi-stratificato. Artisti e artiste indagano l’ascolto delle voci e memorie migranti e il significato della musica e del canto in questo contesto, ci mostrano come il silenzio possa essere un potente e performativo atto di resistenza, invocano le radici dell’ascolto quale strategia politica attiva dei movimenti femministi degli anni sessanta e settanta, o ci ricordano quanto velocemente finiamo per trascurare talune voci nel rumore costante dei media sociali.

An exhibition on silence, noise, and listening, accoglie una serie di artisti internazionali: Mohamed Almusibli nato nel 1990, vive e lavora a Ginevra, CH; Pauline Boudry e Renate Lorenz che lavorano insieme a Berlino dal 2007; Miriam Cahn nata nel 1949, vive e lavora a Stampa, CH; Nina Emge nata nel 1995, vive e lavora a Berlino, DE e Zurigo, CH; Nastasia Meyrat nata nel 1991, vive e lavora a Losanna, CH; Dorian Sari nato nel 1989, vive e lavora a Basilea, CH; Hannah Weinberger nata nel 1988, vive e lavora a Basilea, CH.

fonte: www.istitutosvizzero.it
foto: pixabay